Con gli angeli in sacrestia

Con una mezza idea di proseguire l’indagine sul rapporto tra Rieti e la cultura provo ad entrare in Cattedrale e mi imbatto in don Roberto D’Ammando che sul tavolone della sacrestia si prende cura di alcuni putti di legno.

«Chi ha studiato per i beni culturali e se ne prende cura c’è – mi dice in riferimento all’intervista a Padre Mariano Pappalardo pubblicata sullo scorso numero di «Frontiera» – ma Padre Mariano ha detto la verità. Spesso tra i sacerdoti non c’è aggiornamento, ci accontentiamo degli esami finalizzati all’ordinazione. Non sempre, ovviamente, ma spesso è così. Il livello culturale dei preti si è un po’ affievolito. Ci si accontenta un po’ troppo. Sia in ambito teologico che pluridisciplinare. Basta dare un’occhiata alle biblioteche dei sacerdoti per vedere se le pubblicazioni sono ferme agli anni in cui hanno studiato oppure se c’è qualche acquisto recente. È un male perché la maggior parte di noi, anche in paesi piccoli, dai nomi sconosciuti, si trova a dover gestire un patrimonio artistico e storico notevole. Purtroppo capita di andare in qualche chiesa e notare qualche danno».

Questi aspetti sembrano tuttavia solo una parte del tema. In effetti, più dell’«esser colto», ad essere interessante sembra essere il modo di stare in società, il modo in cui si forma la mentalità. In questo la Chiesa in passato ha avuto indubbiamente un peso. La domanda è se questa funzione oggi sia andata persa.
In parte è senz’altro così. Ci siamo rinchiusi nelle sacrestie nostre. Spesso per paura di non poter reggere un confronto. Oggi ci sono un’apertura ed un livello culturale diversi rispetto in passato. È chiaro che se non ci aggiorniamo, anche noi sacerdoti finiamo col dare l’impressione di stare a parlare dell’aria fritta. Direi che il ruolo sociale non si è affievolito come funzione, come sostanza, ma non lo si assolve più come si dovrebbe. Ci limitiamo alle funzioni, a volte con trascuratezza.

D’altra parte c’è chi come te sta qui e si prende cura dell’eredità del passato…
Beh, probabilmente uno “ligio al dovere” direbbe: «lo specifico del sacerdote non è ripulire gli angeli!» Sostanzialmente è anche vero. Sarà che per formazione mia e per gli studi fatti, secondo me i beni culturali vanno tutelati, valorizzati e preservati. Quindi, se posso ed ho tempo faccio pure questo. Peraltro certi tipi di danno dimostrano che anche in passato la formazione nella tutela di un bene storico artistico non c’è stata come non c’è tutt’ora. Eppure attraverso l’opera d’arte si è evangelizzato. Dunque l’interesse non è solo nell’opera in sé, quanto nella tutela della finalità per la quale è stata realizzata. Non fosse così potremmo buttare tutto in sacrestia o nel sottotetto e via.

Ma questi problemi sono tra quelli che si pongono oggi i sacerdoti?
Secondo me non più di tanto. Ma va anche considerato che facciamo i conti con una realtà territoriale diocesana sostanzialmente limitata. Posso fare il mio caso personale: tutti sanno quanto io ami il mio paese d’origine, ma è evidente che anche gli interessi, la formazione e il vissuto della gente sono sostanzialmente diversi. Volendo, da questo punto di vista, in un paese un prete si trova anche più “agevolato”. È anche in base al contesto che la voglia di andare avanti, di progredire, di formarsi ulteriormente non la senti nemmeno. Una volta fatta la processione sembra tutto in ordine. In fondo è quello che viene richiesto.

Ma non finisce con l’essere controproducente, o deprimente?
È un problema generalizzato. Ma dipende anche tanto dal tipo di esperienze che si fanno e dal contesto nel quale vivi. Già Rieti ha i suoi limiti, immagino a vivere in un paese di 200 anime: non hai stimoli. Ma la questione non è sminuire le “quattro vecchiette” che ci consentono di celebrare le messe feriali.

Non potrebbe essere proprio la limitatezza e la mancanza di prospettive di queste situazioni ad imporre lo sforzo di un miglioramento?
In effetti la sfida che ci attende sarà quella di saper investire sul futuro. Ci vorranno scelte coraggiose da un certo punto di vista. Ma queste comportano l’andare incontro all’incomprensione, al fatto di doverle far capire, e così via. Da questo punto di vista anche l’idea di razionalizzare il numero delle celebrazioni può essere adeguata alle condizioni del territorio e vista la società cambiata in tante cose. L’importante sarebbe non arrivare a queste scelte sempre all’ultimo momento.

In generale la Chiesa sembra lenta a cambiare…
Sì, questo sì. Il «s’è sempre fatto così» è tanto comodo per non cambiare le cose. Magari si va avanti per inerzia ma si regge fino ad un certo punto. E permettimi di dire che in certi casi le maggiori resistenze arrivano dalle generazioni più giovani. Io trovo che alcuni sacerdoti anziani abbiano un’apertura mentale, anche di fede, teologica, da fare invidia a tanti della mia generazione.

Forse perché hanno vissuto con entusiasmo la spinta rinnovatrice del Vaticano II? Hanno come fatto propria una continua necessità del rinnovamento?
Probabilmente c’è anche questo aspetto. Di sicuro io noto che con qualche giovane sacerdote si tende addirittura a fare qualche passo indietro. Non intendo su aspetti come il ritorno al gregoriano o il modo di vestire, ma proprio attorno alla concezione stessa che si ha della Chiesa.

Una provocazione: la crisi delle vocazioni può dipendere anche dall’accorgersi di questo insieme difficoltà?
Mah, questo non lo so. Non so se è per questo che manca la convinzione. So che al momento in quest’ambito siano in sofferenza. Forse falliamo nella misura in cui non c’è chi segue, coglie i segnali delle vocazioni, se ne prende cura… il sacerdozio è un tipo di scelta verso cui il coraggio da solo oggi non te lo puoi dare, parliamoci chiaro. Anche perché nell’ambito scolastico e familiare non sei certo incentivato ad andare avanti per questa strada. Ma la paura di vivere una realtà difficile sotto tanti punti di vista la sai. A frenare non è la paura. Spesso e volentieri è la solitudine. È dire: sì, va bene, vorrei diventare prete. Ma da chi vado? A chi lo dico? Che debbo fare?

Di fronte a tutte queste difficoltà, oggi quale può essere la dimensione “sociale” del sacerdote?
L’educazione al bene comune. Questa dovrebbe essere una delle nostre funzioni “civili”. Ma se continuiamo a riferirci al peccato nominando solo “l’atto impuro”, senza guardare il non pagare le tasse o il cercare il compromesso per ottenere il lavoro – anche a scapito degli altri – non per fare denuncia, ma per educare il cristiano a vivere in una realtà sociale, possiamo celebrare tutte le Messe di questo mondo o fare l’elenco dei comandamenti all’infinito, senza riuscire a formare la dimensione del cristiano. A qualche gruppo piace ricordare che «noi non siamo del mondo». È verissimo, ma nel mondo ci siamo e siamo chiamati a vivere da cristiani. Non solo dentro una chiesa: un’ora alla settimana non basta. Il resto della vita lo viviamo fuori da queste mura, è fuori che dovremmo essere persone che sanno fare scelte diverse. Il compito, la sfida della Chiesa, è nel saper educare alla “vita buona”. Quella del Vangelo, è ovvio, ma vissuta fuori della chiesa. Dentro si parla tutti la stessa lingua, è facile: al “Padre Nostro” alziamo tutti le braccia ed il segno di croce ce lo facciamo tutti. Ma è fuori che dovremmo saper vivere queste cose.

E questo si fa?
Non sempre. Forse non lo facciamo perché anche se ci lamentiamo in fondo le cose ci stanno bene. In fondo noi sacerdoti per primi dobbiamo trovare il coraggio di fare scelte diverse e di proporci in maniera diversa. Altrimenti corriamo il rischio che le nostre chiese diventino musei. Sicuramente edifici belli e carichi di storia, ma che non assolvono più le funzioni per cui sono stati pensati ed ideati.