A cosa (e come) crediamo di credere / 2

Secondo appuntamento con la serie dedicata al rapporto tra Chiesa e giovani. La settimana scorsa vi abbiamo proposto il punto di vista di uno, oggi descriveremo l’esperienza dell’altro, maturata nel corso degli anni e simile a quella di molti suoi coetanei.

Come spesso accade, dopo il consueto percorso dei sacramenti, il rapporto con la parrocchia si appiattisce ai soli incontri domenicali, non sempre rispettati. Poi entrano in gioco consapevolezza e curiosità, verso le religioni in generale e quella cattolica in particolare. Si inizia a fare distinzioni tra clero e Dio, Bibbia e Vangeli e in sostanza tra il cristianesimo di Gesù e quello del catechismo. Preferendo invariabilmente il primo.

In questo caso specifico il discorso è andato un po’ oltre, mettendo in discussione anche le usuali immagini del Cristo e di Dio stesso, pervenendo ad una personale visione della spiritualità. Tutto ciò nell’intimità del proprio pensiero, mentre all’esterno continuavano le occasionali visite settimanali e la partecipazione alle cerimonie più importanti (Pasqua, Natale, ecc.).

In generale questo meccanismo di separazione tra il Cielo della teologia e quello del cuore, permette di credere, mantenendo una reale devozione o ignorando completamente le manifestazioni sociali, senza porsi i problemi e le sfide che la chiesa spinge ad affrontare. Tanto per fare un esempio, il rapporto con la sessualità viene ricondotto ad argomenti di pura ragionevolezza, scavalcando la morale tradizionale.

Senza più legami tra il pensiero e la pratica, la fede individuale diventa uno strumento “concettuale” utile per affrontare la vita ma privo di una dimensione comunitaria o istituzionale. Qualcuno parlerebbe di relativismo. E allora ci sono più relativisti di quanto si potrebbe immaginare.

di Caterina D’Ippoliti e Samuele Paolucci