Cognome della madre: «La vera sfida è dare significato alla filiazione»

Andrea Nicolussi, docente di diritto civile all’Università Cattolica di Milano, analizza la sentenza della Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi, avendo negato loro la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre invece di quello del padre.

Il figlio è una “proprietà”, espressione del “diritto soggettivo” di un adulto, oppure è il frutto di un’assunzione di responsabilità da parte di due coniugi? Secondo Andrea Nicolussi, docente di diritto civile all’Università Cattolica di Milano, è l’idea stessa di “filiazione” quella su cui ci si deve interrogare, all’indomani della sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi avendo negato loro la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre invece di quello del padre. A fare ricorso alla Corte di Strasburgo, che ha sancito il diritto dei genitori di dare ai figli il solo cognome materno, sono stati due coniugi milanesi, Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, che avevano presentato ricorso al Tribunale di Milano per non aver potuto registrare all’anagrafe la propria figlia Maddalena, nata il 26 aprile del 1999, con il cognome della madre invece di quello del padre. Il caso era arrivato fino alla Corte Costituzionale, che pur dichiarando nel 2006 la questione irricevibile, aveva osservato come l’attuale sistema fosse frutto di una concezione patriarcale della famiglia non più compatibile col principio costituzionale della parità tra uomo e donna. Orientamento, questo, confermato per due volte dalla Cassazione, l’ultima delle quali nel settembre del 2008.

Professore, dopo la sentenza della Corte di Strasburgo l’Italia è obbligata ad adottare riforme legislative per rimediare a quella che la stessa Corte definisce una violazione del diritto alla “vita privata e familiare” e a “non essere oggetto di discriminazione”?

“La sovranità della Corte di Strasburgo non è tale da comportare addirittura l’obbligo di modifiche della legge. Certo, dopo questa sanzione è probabile che ci siano altre sanzioni, per casi simili, all’Italia, e dunque è possibile che si arrivi ad una modifica della legge. Tuttavia, non è importante sapere se queste modifiche ci saranno o meno, ma come, in che direzione si modificherà eventualmente la legge”.

Qual è, allora, la posta in gioco?

“A mio avviso, in questa sentenza è in gioco il senso e la funzione del cognome. Siamo in presenza, infatti, di due diverse alternative: far rifluire anche la questione del cognome all’interno di una concezione familiare tutta incentrata sui diritti soggettivi degli adulti, che diventano indisponibili, oppure sottolineare la funzione del cognome mettendo al centro l’identità del figlio, il rapporto della persona con il legame familiare, con l’appartenenza alla propria famiglia. Nel pronunciamento di Strasburgo, in altre parole, non è tanto in questione la predominanza del cognome del padre o della madre – anzi, la sentenza da un lato rende giustizia alla madre, riconoscendo la sua titolarità alla pari del padre – ma una concezione di famiglia. È chiaro che la famiglia patriarcale, intesa in senso esclusivo ed escludente, è per fortuna ormai tramontata, a favore di una maggiore sensibilità per l’uguaglianza e la pari dignità dei coniugi, ma ciò non significa che si possa e si debba ridurre la famiglia ad un mero affare privatistico. Quello di cui abbiamo bisogno è una famiglia non più patriarcale ma neo-istituzionale: una famiglia, cioè, che riconosca e valorizzi ancora la dimensione istituzionale – neo, non vetero – senza far degenerare la stessa struttura familiare in un contesto di individui che rivaleggiano e confliggono fra di loro”.

Non è quest’ultimo, invece, il modello di famiglia che rischia di prevalere?

“Non ne sarei così sicuro. Il copione non è già scritto, ci sono diversi strati e ambiguità. Non c’è dubbio che l’individualismo e il soggettivismo condizionano i legami familiari, in alcuni casi minacciandone l’identità, ma esistono anche istanze contraddittorie. Ad esempio, da un lato si fa ricorso alla fecondazione eterologa o alla gestazione per altri, dall’altro la rivendicazione del diritto a voler conoscere le proprie origini biologiche si fa sempre più forte”.

E la “non discriminazione”? Non può rivelarsi una discriminazione al contrario?

“L’ideologia dell’indifferenziato è uno dei pericoli del nostro tempo: una concezione della non discriminazione che, anziché assolvere la funzione di produrre giustizia, finisce invece per essere un’omologazione che rende tutto grigio, senza dare a ciascuno il suo. Ma è proprio questo ‘dare a ciascuno il suo’ il compito di ogni stagione del diritto…”.

Qual è, secondo lei, la sfida da raccogliere?

“La vera sfida è dare significato alla filiazione. L’articolo 30 della nostra Costituzione stabilisce che ‘è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio’: quello che conta è il fatto di averli procreati, c’è una responsabilità che non può che gravare su chi ha compiuto l’atto di generazione. La regola della nostra Costituzione è a favore del figlio, non contro il figlio: promuovere l’assunzione di responsabilità genitoriale è una scelta che non si può assumere, ma solo attribuire giuridicamente. Ma eticamente sì”.