Clochard morti a Roma: un fatto emblematico

Nella capitale, secondo la Caritas di Roma, almeno 5-6.000 persone dormono in rifugi di fortuna.

Una “sinergia forte tra mondo del volontariato e amministrazioni pubbliche” per fare in modo che episodi del genere non si ripetano più. All’indomani della morte, in un rogo, di due clochard in un sottopasso a Roma, questa la richiesta alle istituzioni di mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas diocesana di Roma, in un’intervista a Patrizia Caiffa, del Sir. I corpi delle due persone, probabilmente somali, sono stati ritrovati in una piccola nicchia in un tunnel del Muro Torto, a due passi da via Veneto.

Si pensa che siano morti a causa del fuoco acceso per riscaldarsi dal freddo della notte. Ieri la Comunità di Sant’Egidio ha espresso dolore e suggerito “di aumentare gli sforzi per rispondere ad un’area di disagio che con l’inverno e la crisi economica si è andata allargando”.

Anche le Acli di Roma, il Ceis di don Mario Picchi, l’Unitalsi di Roma e il Bancofarmaceutico-Roma hanno chiesto “un censimento di tutti i luoghi di povertà nascosta”, per “individuare con maggiore celerità le emergenze” e “intervenire preventivamente con la distribuzione di coperte e pasti caldi”. Nella capitale – secondo la Caritas di Roma – almeno 5-6.000 persone dormono in rifugi di fortuna. Durante l’inverno i posti letto a disposizione sono 2.800, di cui la metà gestiti da parrocchie, enti benefici, volontari.

A Roma ancora due clochard morti tragicamente. Come reagisce la Caritas di Roma?

“Due persone che muoiono in un sottopassaggio mentre sopra, a via Veneto, ci sono i tavolini per i brindisi e le feste. È un fatto emblematico: chi sta sopra non si rende conto di cosa succede sotto. Questo è il dramma più grande: non aprire gli occhi davanti alle situazioni di difficoltà in cui vivono tantissime persone a Roma. Nemmeno noi riusciamo ad accogliere le tante persone con problemi psichiatrici che vivono sulla strada, perché non ci sono gli strumenti per aiutarle”.

C’è indifferenza sulla sorte dei più poveri?

“Non c’è indifferenza sulla singola situazione ma in generale. È come se la presenza dei clochard fosse accettata come strutturale. I sottopassi da tanti anni sono diventati i ricoveri per gli ‘uomini randagi’: è una brutta espressione ma purtroppo è questa la percezione della gente. Nella zona della stazione Termini, ad esempio, ci sono tantissime persone che dormono in strada e tanti ci passano vicino. I nostri operatori girano la notte e stanno vicino a quelli che hanno più bisogno, ma non ce la fanno ad aiutare tutti, non sappiamo più dove metterli. Più di dare una coperta e qualcosa di caldo non possiamo fare. Ma è come mettere l’acqua dentro un secchio bucato. E poi ogni anno si parla dell’emergenza freddo. Questo dimostra una carenza di lungimiranza, perché ogni anno è normale che ci sia il freddo e il caldo. Una società dovrebbe essere capace di prevedere queste difficoltà”.

Cosa le preoccupa di più tra le tante emergenze?

“Sono molto preoccupato perché alla fine di febbraio saranno chiusi tutti i centri che hanno accolto le persone venute per l’emergenza Nord Africa. Quando chiuderanno i centri dove andranno? Si riverseranno soprattutto nelle grandi città. Bisogna avere le capacità di vedere, prevedere e attrezzarsi”.

Vi sentite impotenti di fronte a tanti bisogni?

“Certo. Noi abbiamo a disposizione solo 400/500 posti letto. Non abbiamo aiuti, impieghiamo anni per ottenere i permessi. Non siamo facilitati e spinti, non c’è un atteggiamento di supporto e aiuto. Una delle grandi carenze è che si fanno iniziative solo per sostenere argomentazioni di tipo elettorale. Come a Tor de Cenci, nella zona dove è stato sgomberato il campo nomadi: non si può pensare di costruire una pista di go kart dove prima c’erano i container per accogliere le persone”.

Cosa auspica?

“Una sinergia forte tra mondo del volontariato e istituzioni. Servono osmosi, dialogo, colloquio. Il volontariato non ce la fa da solo a rispondere a tutti i bisogni. Ora stiamo correndo dietro alle situazioni cercando di mettere delle toppe, ma così non si risolvono i problemi. L’incapacità di ascoltare sta a monte. Le amministrazioni pubbliche devono attivarsi, perché stanno aumentando le persone che vivono in strada. Serve un confronto operativo sulle questioni concrete, non un dialogo fatto di complimenti; una programmazione a lungo termine, non solo nell’immediato. C’è il numero verde del Comune, ma quando si telefona rispondono che è tutto pieno. Ma bisognerà pure fare qualcosa. Abbiamo la vecchia Fiera di Roma: perché non programmare in quell’area un discorso di accoglienza? Invece si sente dire che le intenzioni sono altre”.

Eppure esistono tante caserme e altri edifici dismessi…

“Certo, mi rendo conto che il posto da solo non basta. Servono soldi per la ristrutturazione, per la gestione. So che per un’amministrazione i costi, soprattutto del personale, sono alti, da sola non ce la farebbe. Per questo bisogna che ci sia una sussidiarietà, un’interfaccia tra pubblico e volontariato. Faccio un esempio: giorni fa alla mensa di Colle Oppio avevamo solo due operatori e una trentina di volontari. Abbiamo distribuito 520 pasti. Abbiamo potuto farlo perché abbiamo tantissimi volontari. Altrimenti dovremmo chiudere. La grande forza della città di Roma è la presenza di migliaia di volontari. È un aiuto enorme. Gli amministratori dovrebbero capire che questa forza non deve essere messa da parte. Va aiutata non a parole, ma con i fatti”.