“La città murata”, un romanzo storico di Igino Giordani

“E quando i monaci, selva nera canonica, intonarono il Te Deum, la folla non stette a sentire: intonò anche lei, con migliaia di voci, il canto di lode; e il giovane abate e il legato ne provarono un brivido, con l’impressione d’una scena di paradiso”

Personaggi importanti per la storia dell’Occidente e della Chiesa nell’undicesimo secolo, Pier Damiani e Ildebrando di Soana, (il futuro papa Gregorio VII) imperatori, abati, papi e antipapi, tutte figure storiche, gli splendidi panorami dei monasteri di Subiaco, come nel caso di Santa Scolastica nel brano qui riportato, del monte Soratte, della Tibur, poi Tivoli, acerrima nemica in quegli anni della rissosa nobiltà romana, e la stessa Roma ridipinta con i colori precisi e insieme suggestivi del tempo, sono tra i punti fermi di un romanzo dimenticato. “La città murata” è stato scritto da un uomo di cultura e di azione mai dimenticato, Igino Giordani (1894-1980), che ha attraversato una parte cospicua del Novecento italiano tenendo fermi, soprattutto sotto il fascismo, gli elementi-cardine del cattolicesimo, tra i quali il rifiuto della violenza e l’amore verso gli umili. È possibile che il romanzo, uscito la prima volta per “L’Illustrazione Vaticana” nel 1936, e poi per le edizioni “Ave” nel ’39, fino a quelle di “Città Nuova” e dell’editore “Massimo”, (questa però ridotta per i ragazzi) rispettivamente del 1965 e del 1981, sia passato in secondo piano a causa delle molteplici attività dello scrittore e uomo politico tiburtino o dell’ostracismo del regime; rimane il fatto però che “La città murata” andrebbe riedito e riletto attentamente perché è uno dei pochi romanzi storici in cui invenzione e fedeltà ai fatti vanno di pari passo. Più di ottant’anni prima Manzoni aveva condannato a morte il romanzo storico con un suo celebre saggio, “Del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e d’invenzione” in quanto genere troppo ibrido, che, secondo lui, non era più né storia vera né invenzione. Ma, lo si sa, lo scrittore lombardo era un perfezionista ed era pieno di dubbi e nevrosi e talvolta pure un po’ autolesionista, perché così facendo affossava anche il campione più riuscito di quel genere, i suoi “Promessi sposi”. Ma forse Manzoni non avrebbe disprezzato il romanzo di un altro combattente, come lui, per le sorti italiche e per un cattolicesimo impegnato nella storia, solo vissuto un po’ più tardi. Perché, come si diceva, “La città murata” ha uno sfondo storico, quello delle divisioni della Chiesa dopo il Mille, delle scelte di campo apparentemente filo-papali e filo-imperiali, ma in realtà legate a diversi modi di intendere il papato (e l’impero) da parte della rissosa nobiltà italiana e non solo italiana del tempo.
In realtà, se i protagonisti sono apparentemente due ennesimi sposi promessi, Bonizza e Fiorenzo, il personaggio che affascina di più è proprio l’ascetico, ieratico, silenzioso, vigile Ildebrando di Soana che senza clamore, senza smanie di primattore, porta avanti il discorso di purificazione della Chiesa e soprattutto quello della sua indipendenza dal potere politico. Ma proprio qui sta l’abilità del Giordani narratore: aver creato un personaggio che senza mai sembrarlo, è il vero assoluto protagonista della Città murata.
Chi volesse avere un quadro, narrativo, ma insieme approfondito e ben documentato, della situazione storico-politica dell’Italia del tempo avrebbe molto da imparare da questo racconto: le microstorie del popolo, cui si sente andare tutta la simpatia del Giordani, si fondono impalpabilmente con la grande storia che precede le lotte per le investiture.
Un intero importante e non ancora ben conosciuto pezzo della storia d’Europa riaggalla piacevolmente – e per questo l’oblio è ancor più colpevole – dal silenzio di una stagione ancora sconosciuta di una delle più importanti figure del cattolicesimo italiano nel Novecento.