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Città, amor proprio e prospettiva

I giorni dell’Incontro pastorale hanno visto Rieti celebrare l’ennesimo evento legato al cibo. Per tre giorni camioncini e gazebi hanno occupato con successo piazza Vittorio Emanuele II per distribuire gustosi panini, ghiottonerie di ogni sorta, fiumi di birra artigianale e vino del centro Italia. Un evento che ha raccolto il testimone dalla fiera del formaggio e da quella del peperoncino, guardando alla festa del cioccolato del prossimo ottobre. Un impegno consistente portato avanti nell’ottica di rivitalizzare il centro storico e che in questo senso dice qualcosa di come pensiamo a noi stessi e alla città

Si respira una certa soddisfazione per la buona riuscita delle ultime iniziative in città. Il Summer food dello scorso fine settimana, ad esempio, ha portato un notevole movimento in piazza: abbastanza da rilanciare con forza sui giornali l’idea che il centro storico sia la «location ideale e apprezzata» per ospitare questo genere di cose.

La formula

Comunicati stampa a parte, viene da chiedersi se gli affollati eventi delle ultime settimane siano davvero il segno di una ritrovata vitalità, o se invece non coprano una qualche disperazione. Che le feste gastronomiche attraggano gente è fuor di dubbio. Di sicuro ci guadagnano i lavoratori degli stand e aumentano i contatti per i negozi. E poi queste proposte invogliano a uscire, a stare insieme: non è certo male per un centro cittadino in agonia, impoverito di abitanti, esercizi e servizi.

Centro storico in crisi

La parte antica di Rieti è fiaccata dal terremoto, da un’eccessiva espansione fuori le mura, dai troppi centri commerciali, dalle vendite on-line. Non si tratta di un caso isolato: in tante città si assiste al calo dei residenti nei quartieri storici e al saldo negativo tra le chiusure dei negozi e l’apertura di nuove attività. Ma la ricetta che stiamo sperimentando per contrastare questa crisi generale sarà quella giusta? Il successo delle iniziative è meritato e rincuora. L’immediato consenso, però, non dice nulla attorno all’efficacia del rimedio, che potremmo presto scoprire limitato, superficiale e di corto respiro.

Scelte di campo

Il punto è che i centri storici sono in cerca di una nuova identità e desta preoccupazione il costante ricorso al basso profilo che punta letteralmente alla pancia della cittadini. È vero che il cibo è cultura, ma è l’odore di fritto, arrosto, formaggio e insaccati che sale alle finestre del Municipio ciò che ci rappresenta meglio? Sono le bancarelle e i gazebo l’immagine della città che vogliamo? Sono questi gli elementi che raccontano quel che siamo, che rendono unica la città, che ne valorizzano la storia e le tradizioni?

Turismo e identità

Proviamo ad ampliare l’orizzonte. Credere in Rieti “città turistica”, obbliga a un confronto con le località che hanno maggiore successo in questo settore. Possiamo dunque chiederci se il modo che abbiamo di occupare piazza Vittorio Emanuele II è immaginabile anche per piazza Della Signoria, piazza San Marco o piazza Duomo. È vero che Rieti non è Firenze, Venezia, o Milano, ma non tanto per una questione di dimensioni, quanto di amor proprio, di orgoglio cittadino e anche di prospettiva.

Una voce diversa

A giorni alterni si corona di Rieti «capitale mondiale» di qualcosa: dalla danza al belcanto, dallo sport al peperoncino. Sono affermazioni spericolate e un po’ provinciali, ma la città ha davvero le sue carte da giocare. Però bisogna crederci, riconoscere i veri punti di forza, arrangiare strategie e fondate.

Magari si potrebbe costruire qualcosa di nuovo dando retta alla lezione dei due economisti intervenuti all’Incontro pastorale dello scorso fine settimana. Da Stefano Zamagni e Luigino Bruni è arrivato l’invito a sperimentare un’economia civile, a indirizzare alla socialità e alla reciprocità il lavoro e il mercato, a non fare di consumo e profitto gli unici indizi di qualità e successo.

Un approccio che sottrae alla secca alternativa tra la condanna a una crescente marginalità e il rifugiarsi in iniziative di scarsa prospettiva. Una scelta di campo che potrebbe riuscire ad assecondare le esigenze di giovani qualificati e creativi, e di una nuova economia urbana, fatta di terziario avanzato, conoscenze innovative e aperture al terzo settore.

Il rischio dell’abitudine

Nella parola “sviluppo”, ha spiegato Zamagni a Contigliano, la “s” iniziale nega il “viluppo”, inteso come chiusura in se stessi «senza osservare né aprirsi al mondo circostante». Come a dire che margini di crescita e miglioramento si trovano quasi sempre andando oltre le abitudini, evitando di accontentasi del “si è sempre fatto così” e rifiutando la ripetizione ottusa di quello che sembra funzionare. Ad allargare lo sguardo, infatti, quella che sembra la soluzione potrebbe rivelarsi parte del problema.