La Chiesa di Rieti riparte dalle macerie del sisma, ferita ma non rassegnata

In oltre 500, tra clero, religiosi, religiose e laici sono accorsi ieri pomeriggio a Contigliano, per l’incontro pastorale promosso dalla diocesi sul tema “Camminare, costruire e confessare”. Un evento che nessuno avrebbe mai pensato potesse svolgersi all’indomani della tragedia del terremoto del 24 agosto e che ora si trova ad essere un punto di ripartenza per una Chiesa reatina ferita ma non rassegnata. Le parole del vescovo, monsignor  Domenico Pompili: “Accompagnare, ricostruire e imparare a credere”. E un faro a illuminare la strada: san Francesco d’Assisi

La lunga lista dei nomi delle vittime che scorre sullo schermo e il canto del Veni Creator: si è aperto così, ieri pomeriggio, a Contigliano (Rieti), l’incontro pastorale promosso dalla diocesi di Rieti sul tema “Camminare, costruire e confessare”. Doveva segnare la ripresa delle attività pastorali e invece segna la ripartenza di una Chiesa ferita ma non rassegnata, che vuole essere un ospedale da campo per “i fratelli colpiti dal sisma” ha ricordato il vescovo, monsignor Domenico Pompili. Nelle sue parole il terremoto è stato una sorta di “convitato di pietra”.

La chiesa è “antisismica”. “Il terremoto – ha detto il vescovo di Rieti – non è passato ma è in mezzo a noi. E non mi riferisco allo sciame sismico ma a quello che sta accadendo.

Generazioni spazzate via da 80 secondi, la vita cambiata in un attimo, polverizzati i legami familiari e amicali. Tutto è stato annullato. Nulla è più come prima”.

Qualcosa è cambiato anche nella Chiesa reatina, “per sempre”. La risposta della diocesi è tutta in tre parole: “Accompagnare, ricostruire e imparare a credere”, tre priorità dettate dal sisma ma che paradossalmente possono diventare linfa vitale per la rinascita. Sì, perché in fondo “la Chiesa è antisismica – aveva detto sempre mons. Pompili celebrando al mattino la messa in cattedrale, atto introduttivo dell’incontro pastorale – perché la pietra d’angolo che tiene unite le sue pietre vive è Cristo. Solo la fede può tenerci uniti e chiedere a Dio di accompagnarci in questi momenti di caos e di sbandamento”. “Accompagnare – ha spiegato il vescovo – significa stare accanto, muoversi al passo degli sfollati che pagano il prezzo più alto, condividere con loro il lungo tratto di strada verso la collocazione in moduli abitativi fino alla ricostruzione”. La chiesa di Rieti come un ospedale da campo, simile a quello realizzato ad Amatrice dopo il terremoto. “Ed è quello che ci aspetta – ha detto mons. Pompili – Dovremo stare accanto a chi è stato colpito dopo che i riflettori si spegneranno. Ci vorrà una lunga fase di ascolto, di condivisione e di sostegno.

Ci hanno chiesto una spalla per piangere e una mano da stringere”.

Il nemico peggiore di coloro che sono stati colpiti è, infatti, “la solitudine”. Serve anche “vigilare perché si tenga conto della necessità di dare spazi alla comunità”. Infine “imparare a credere anche quando tutto è privo di senso”. Questo, per il vescovo di Rieti, è il tempo per “cercare Dio ancora di più anche attraverso opere spirituali e materiali. Esercitiamo uno sguardo dolce nonostante l’odore della morte che non è svanito”.

Al passo dei più deboli. Le parole di mons. Pompili, insieme a quelle del sondaggista Pagnoncelli che ha fatto il punto sulla situazione italiana e reatina partendo dai dati dell’Istat, sono state raccolte dai tanti presenti e discusse in gruppi di lavoro. Per Silvia Di Donna, presidente diocesano dell’Azione cattolica, “il sisma, vissuto direttamente sulla nostra pelle, ci ha fatto riflettere sulla caducità dell’uomo, ma ci ha fatto anche acquisire maggiore consapevolezza e sensibilità nei riguardi dei bisogni dei più poveri che oggi per la chiesa reatina sono anche gli sfollati, i colpiti dal sisma. È importante avere però una prospettiva e un progetto per andare oltre il momento presente”. Guardare al futuro per ricostruire dalle macerie. Il pensiero verso chi è rimasto dalla tragedia del sisma, anziani, orfani, giovani, famiglie, “ci spinge a pensare al futuro – è stata la riflessione di Marco Colantoni, già presidente di Ac – nessuna casa può reggersi se non è fondata sulla roccia e se non è aggrappata al cielo. Non limitarci a ciò che l’uomo ha costruito, anche male, come ricordato da mons. Pompili ai funerali di Amatrice, ma pensare a cosa fare da qui in avanti singolarmente e comunitariamente”. Ma come?

“Dobbiamo camminare in cordata al passo dell’ultimo, quello dei nostri fratelli vittime del terremoto. Il passo della diocesi deve essere quello dei più deboli. Solo così potremo riprendere il cammino e ricostruire”.

Emanuele Chiarinelli, educatore scout e presidente della Consulta diocesana dei laici è d’accordo. Il ricordo di quei momenti resta vivo: “dopo lo spavento è sopraggiunta la percezione di cosa il sisma aveva provocato, la distruzione davanti ai nostri occhi, in una zona ben conosciuta. Abbiamo visto vite strappate ad amici, conoscenti, a famiglie intere. Allo smarrimento iniziale abbiamo subito risposto con la forza della solidarietà, della vicinanza.

Il sisma ci ha fatto sentire una famiglia.

Aver preso parte ai soccorsi ci ha fatto vedere come le piccole comunità delle frazioni che costellano Amatrice e Accumoli sono diventate delle famiglie. Un senso di comunità che si è diffuso nell’ambito di una evidente sofferenza.

Gli edifici reggono, come le persone, se sono connesse e se collaborano. Non esistono percorsi individuali ma comunitari, mai come ora”.

In questo cammino la Chiesa reatina potrà contare su un faro, quello di san Francesco, chiamato “a riparare la casa”. Il santo di Assisi fu “un camminatore, dal momento che lasciò la casa paterna e le sue ricchezze, fu capace di ricostruire la Chiesa in rovina facendo della povertà il proprio stile e fu maestro nel confessare la forza dell’amore di Dio”.