Che fare?

Le cose da fare per uscire dalla crisi sono i temi all’ordine del giorno da mesi. La cura prescritta alla Grecia da noi è ancora agli inizi. Inutili le proteste, ma forse siamo in tempo per sperimentare una strada diversa: quella del rifiuto di partecipare, collaborare, contribuire alle soluzioni che ci schiacciano.

Chi detiene il potere parla chiaro: si paga il prezzo della competitività e della crescita o è la catastrofe. E ancora: o si paga il debito o si muore. Pare di sentire la voce metallica di un megafono: «arrendetevi, non c’è scelta, siete circondati!».

Quelle portate avanti nell’Europa di oggi sono una logica e una pratica da mani sul collo. Lo smantellamento degli Stati, del lavoro, della società così come la conosciamo, va avanti a tappe forzate, costi quel che costi. Se le ragioni dei forti sono tutte da dimostrare non importa. A loro basta la capacità di imporre il proprio mondo. Tanto i più deboli faticano anche solo a trovare un linguaggio per raccontarsi.

Del resto non è facile: a guardare quanto accade nel nostro tempo si avverte un che di paradossale, il tratto di un inganno. Possibile che interi Stati possano andare incontro al fallimento solo perché indebitati con le banche? È giusto che intere nazioni soccombano a quelli che sono e rimangono privati cittadini, peraltro stranieri? Davvero è necessario ridurre alla fame i bambini greci perché possa mangiare il sistema finanziario?

Queste le domande che si sono fatte avanti nel vedere gli scontri di domenica notte in piazza Syntagma, ad Atene. Il Parlamento greco varava l’ennesimo piano di austerità, un altro buco nella cinta dei cittadini per incassare i cosidetti “aiuti” dell’Europa e del Fondo Monetario Internazionale.

Dall’Italia è difficile capire se il centro di Atene si sia trovato in balia dei soliti black bloc, come vuole la vulgata. Forse, di fronte ad un popolo sempre più schiacciato da bisogni non suoi, un certo sospetto attorno alle versioni ufficiali è il caso di conservarlo.

Tanto il problema è un altro: a che servono gli scontri, le proteste, gli scioperi? Finora non hanno cambiato nulla. Al massimo hanno ottenuto di spostare ancora più a destra un sistema che già non si trovava esattamente in equilibrio. Lo dimostrano le piazze d’affari, che lavorano in letizia quando le piazze vere bruciano.

Messe così le cose, è quasi inutile rivendicare, protestare, cercare una istituzione che accolga i bisogni del popolo. L’Italia non sarà la Grecia, ma in entrambe vigono gli stessi imperativi: la disoccupazione va contrastata con maggiore flessibilità, il debito si rimette con manovre “lacrime e sangue”, la spesa pubblica va tenuta bassa a prescindere da cosa paga. Inutile provare a chiedere altre formule. Per chi oggi abita i Palazzi che contano le cose vanno bene così. Gli interessa solo aver salvi i propri privilegi. Guardare a loro, dunque, non serve. Meglio lasciarsi alle spalle ogni aspettativa. Non c’è una forza politica capace di esprimere la protesta, organizzare il dissenso, rappresentare le istanze di miglioramento.

Per trasformare i sommersi in salvati è il caso di agire diversamente. Se la pesca è stata poco proficua, insegna Gesù, bisogna gettare le reti dall’altro lato della barca. Occorre cioè cambiare prospettiva, cambiare strategia. Per uscire dalla crisi i governanti chiedono una disponibilità continua, un inesauribile asservimento all’economia, una vita competitiva ed efficiente completamente occupata dalla ricerca di risultati impossibili. Assecondare questa impostazione ha portato solo cattivi frutti, ma combatterla è stato inutile.

L’alternativa è disertare. Certo, è più difficile che urlare in strada, soffiare nei fischietti e appendere striscioni. Si tratta di lavorare su se stessi, cambiare desideri e modi di pensare. Si tratta di decidere di lavorare meno piuttosto che scendere in strada per chiedere più lavoro.

È un rovesciamento, una conversione. Non si può ottenere per decreto. Il problema è delle coscienze, soprattutto nel tempo in cui le leggi sono scritte da chi vuole solo produrre e consumare di più.

Non sarebbe opportuno comprare meno e fare da sé tutto il possibile? Non è un invito alla povertà: per quella bastano le finanziarie di stagione. Va ripensato piuttosto il significato della ricchezza.

Ci vogliono sempre più mobili e flessibili. Davvero non è più vantaggioso dedicare un tempo maggiore alla casa, puntare sulla famiglia e coltivare le relazioni?

Banalità e romanticherie fuori dal tempo, si dirà. Può darsi, ma a guardar bene la fine della Grecia l’abbiamo già fatta. Ci siamo convinti a scambiare con i soldi la nostra vita, quella degli altri e qualunque altro aspetto della Terra. Ammettere in questo un fallimento è un buon inizio. Provare sin da subito a vivere la vita che ne consegue è il compito che ci possiamo assegnare.