C’è una crisi della cultura, non del sacro

Il semiologo Boris Andreeviĉ Uspenskij: “Non c’è più letteratura, non c’è più arte, e se ci sono non hanno più nulla in comune con la tradizione: il nostro non è più tempo creativo in senso artistico. Abbiamo instaurato un’opposizione tra un ieri e un oggi, decretando l’inutilità dello ieri”. E ancora: “Non è corretto dire che la realtà ideologica dovrebbe essere sempre collegata con la letteratura”.

Boris Andreeviĉ Uspenskij è il più noto esperto di semiotica dei nostri tempi: molti di coloro che hanno compiuto studi umanistici hanno fatto i conti con il suo innovativo apporto alla teoria dei segni. Nato a Mosca nel 1937, ha insegnato nelle università, di Harvard, Vienna, Lugano, l’Orientale di Napoli ed è stato, assieme a Lotman, fondatore della scuola di Tartu, punto di riferimento della linguistica e della Semiotica, oltre che dei rapporti tra immagine e testo scritto. La sua attenzione ai segni, siano essi della scrittura o dell’arte, soprattutto icone, è evidente anche nelle sue vesti di viaggiatore: stiamo visitando una antica cattedrale immersa nel verde delle montagne sabine e lo studioso si sofferma davanti a particolari ignorati da visitatori e studiosi, attirati più dalla visione d’insieme dell’opera. Uspenskij no. Mi chiede di illuminargli con la mia piccola torcia un frammento di scrittura che accompagna un affresco del decimo secolo, non ancora decifrato, si confronta con noi e con il rettore della chiesa sulle possibili interpretazioni, ascolta attentamente. La dimensione del sacro – nei più piccoli particolari – non finisce mai di attirare l’attenzione e la curiosità di uno dei padri dello studio dei segni, anche quelli dell’icona.

Professor Uspenskij, davvero si può analizzare un’opera a prescindere dalla biografia di un autore, come alcuni hanno teorizzato?

“Certo che si può. Anche se noi abbiamo un’idea della vita di uno scrittore, questa idea può aiutare, ma anche impedire le nostre letture. Certo, alcune cose si capiscono meglio con il contesto biografico, ma questo non vuol dire che senza questo contesto noi non potremmo comprendere una data opera. Non voglio dire che non è necessario studiare la vita di uno scrittore, ma una cosa è la vita, un’altra cosa è il testo che ci rimanda l’immagine virtuale dello scrittore. In ogni testo c’è un elemento di gioco, e l’autore, in questo caso, è come un giocatore”.

Anche lei ritiene che il sacro conosca oggi un’eclisse?
“C’è una crisi della cultura, non del sacro. Non c’è più letteratura, non c’è più arte, e se ci sono non hanno più nulla in comune con la tradizione: il nostro non è più tempo creativo in senso artistico. Abbiamo instaurato un’opposizione tra un ieri e un oggi, decretando l’inutilità dello ieri, con il risultato che non c’è più trasmissione della cultura”.

Quali sono i motivi di questo rifiuto della tradizione?

“I motivi sono la tendenza verso l’artificio, ad una malintesa globalizzazione, al fatto che si è costruito un modello di come si deve vivere puramente ideologico, non culturale. Oggi l’uomo dice: ‘bisogna fare così perché questo è progresso’, con un’idea di progresso che elimina completamente il cartaceo, tanto per fare un esempio, senza sapere se il testo elettronico è percepito con lo stesso successo, con la medesima fascinazione del cartaceo. Il progresso è diventato sinonimo di rinuncia al passato: desideriamo essere sempre davanti, come un bambino che vuole essere più adulto, con la differenza che i bambini crescono”.

Quale è il suo giudizio sull’arte contemporanea?
“Ognuno si fa un giudizio individuale. Io penso che l’arte contemporanea non abbia nulla in comune con la tradizione dei mille anni precedenti”.

L’arte non deve rappresentare il proprio tempo?

“Non è corretto dire, come si è fatto, che la realtà ideologica dovrebbe essere sempre collegata con la letteratura. Certo, nelle poesie di inizio Novecento si può constatare la crisi, ma in realtà la poesia è poesia, e il testo poetico, prima di tutto, è indirizzato ad un lettore, alla sua personale decodificazione”.

Gli autori non hanno una biografia, dunque?
“In un’opera ci sono certamente momenti biografici e legati al contesto dell’epoca, ma è interessante capire il messaggio, vedere cosa io lettore ho percepito di quell’opera, cosa rimane dello specifico letterario o artistico di quel testo. È utile per uno psicologo o un sociologo trovare in un’opera tracce di crisi, però gli studi di letteratura non dovrebbero essere basati sulla società, ma solo sul testo”.

Qual è l’opera letteraria che l’ha colpita in modo particolare, e perché?

“Non si può parlare di una sola opera, ma di opere al plurale: ad esempio, in questo periodo sto leggendo per l’ennesima volta ‘Guerra e pace’. Amo molto due grandi scrittori, Tolstoj e Dostoevskij. Quando Tolstoj ha pubblicato ‘Anna Kerenina’, un critico gli ha scritto chiedendogli di spiegare cosa volesse dire. Il grande scrittore rispose con una lettera molto gentile che per soddisfare la sua domanda, avrebbe dovuto scrivere di nuovo il romanzo, perché è il testo stesso ad essere il messaggio. Quando l’Accademia di Svezia conferisce il Nobel, la formula recita che un dato scrittore riceve il premio perché è riuscito a rappresentare la difficoltà dell’uomo del suo tempo; questo è un approccio molto ‘volgare’, non c’è letteratura in questa motivazione”.

È difficile però separare il vissuto dall’opera d’arte.
“Puskin ha descritto la vita della servitù della gleba sotto lo zar, ma la sua opera è importante per la sua bravura, e la bravura di uno scrittore dipende solo dal suo talento”.