Carceri, riforma bloccata: Mattone (esperto), “una reclusione dura e senza speranza difficilmente rieduca”

Appelli, scioperi e manifestazioni per la mancata calendarizzazione della riforma nella Commissione speciale. Il portavoce della Comunità di Sant'Egidio di Napoli, che, grazie alla sua esperienza come volontario al carcere di Poggioreale, ha partecipato agli Stati generali dell'esecuzione penale, parla delle criticità delle carceri oggi e degli effetti che potrebbe avere la riforma

Prima l’appello firmato dai componenti degli Stati generali dell’esecuzione penale, poi due giorni di astensione dalle udienze e la manifestazione organizzata, il 3 maggio, dai penalisti contro lo stop subìto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, a causa della mancata calendarizzazione nell’ordine del giorno della Commissione speciale.

Ad Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, che ha recentemente scritto “E adesso la palla passa a me”, un libro sulla sua esperienza di volontario al carcere di Poggioreale, e che ha partecipato come esperto agli Stati generali dell’esecuzione penale, chiediamo perché c’è tanta urgenza di adottare la riforma.

Com’è nata la riforma?

L’esigenza di riformare l’ordinamento penitenziario nasce dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013 che ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti in relazione al fenomeno del sovraffollamento delle carceri, imponendoci di adottare un insieme di misure strutturali atte a rimediare alla violazione riscontrata entro un anno dalla sentenza. Inoltre, la riforma precedente, datata 1975, era ormai obsoleta rispetto all’evoluzione della nostra società. Basti pensare che in quegli anni i detenuti stranieri erano l’1% della popolazione carceraria contro il 33% di oggi. Così il ministro Andrea Orlando ha dato vita agli Stati generali, 18 tavoli di discussione a cui hanno partecipato magistrati, giuristi, direttori di carceri, professori universitari, volontari, esponenti della società civile per riformare il sistema penitenziario. Da qui è nata la legge delega che purtroppo ancora non è stata approvata dal Parlamento.

Qual è la situazione ad oggi delle carceri italiane?

Dopo un periodo in cui i detenuti erano diminuiti, purtroppo il numero sta ricominciando a salire. Oggi riscontriamo la presenza di 58.285 detenuti a fronte di poco più di 50mila posti disponibili. Ma, oltre al sovraffollamento, credo che

il problema più grosso sia quello della salute

all’interno delle carceri dove per effettuare visite, esami specialistici e interventi chirurgici ci sono liste di attesa lunghissime, per non parlare del turn-over di medici e infermieri che cambiano in continuazione, mentre il rapporto stabile e fiduciario rappresenta per ogni malato un elemento di serenità. In particolare,

la presenza di malati psichiatrici rappresenta una grave emergenza.

La chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) non ha risolto i problemi: le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) che li hanno sostituiti non hanno posti sufficienti, per cui ci sono internati che sono in carcere pur non dovendoci stare e altri che sono liberi, in attesa che si liberino posti in queste strutture. Il problema vero sarebbe eliminare le misure di sicurezza, ma la politica non ha il coraggio di cancellare questa norma che proviene dal Codice Rocco del 1930.

Si fa qualcosa per evitare i molti suicidi nelle nostre carceri?

Si sono ancora tanti, troppi. Nel 2017 52 persone si sono tolte la vita in carcere, quest’anno siamo già a 13. Si tratta di un tasso di circa dieci suicidi su diecimila detenuti, contro un tasso nazionale di 0,51 su diecimila abitanti. La vita in carcere è dura, la riforma avrebbe l’effetto di migliorare la condizioni detentive e quindi avrebbe un effetto positivo anche sulla riduzione di suicidi.

C’è chi accusa la riforma di essere uno svuota carceri…

È assolutamente falso. La riforma penitenziaria elimina piuttosto degli automatismi dei benefici come la possibilità automatica di espiare alcune pene in detenzione domiciliare e prevede la concessione di misure alternative e permessi premio a seconda della condotta del detenuto, che viene monitorato e valutato dalla magistratura di sorveglianza e dagli operatori penitenziari. Modulare il trattamento sanzionatorio sull’impegno del condannato non significa rendere incerta la pena, né tantomeno cancellarla, ma registrarla in base alla condotta dell’individuo.

Quali sono gli effetti positivi che dovrebbe comportare la riforma?

Molti pensano che le nostre città sono più sicure se chi commette reati finisce in carcere e si “butta la chiave”, come si usa dire. Ma non è così. Poiché quasi tutti i carcerati tornano prima o poi in libertà, tranne quelli che scontano l’ergastolo ostativo, è evidente che le nostre esistenze saranno più sicure se queste persone rientrano nella società cambiate nel profondo. Chi un poco conosce il carcere, sa bene che

una reclusione dura e senza speranza difficilmente restituirà individui rieducati.

Una detenzione che si basa sull’abbrutimento, sull’infantilizzazione del linguaggio e dei comportamenti e sulla mortificazione della dignità del condannato può al massimo plasmare un buon detenuto, difficilmente un buon cittadino. Se invece un detenuto aderisce a un progetto individuale di cambiamento, se viene accompagnato nel suo percorso rieducativo, come prevede la riforma, ha meno probabilità di tornare in carcere. Un carcere più umano e responsabilizzante è l’unica strada per produrre cambiamenti effettivi in chi commette reati.

Le pene alternative sono efficaci per ridurre il tasso di recidiva?

Certamente. Ci sono le statistiche che lo dicono: il 70% dei detenuti che scontano tutta pena in carcere ci ritornano, mentre quelli che accedono a pene alternative rientrano nel 30% dei casi. E poi non dimentichiamo che l’articolo 27 della Costituzione parla di pene al plurale, cioè il carcere non è l’unico modo di scontare una condanna, sono previsti altri modi. Quindi, le pene alternative non sono una concessione buonista, ma piuttosto un principio previsto dai padri costituenti per

riportare al centro del sistema la finalità rieducativa dell’ordinamento penitenziario.

Papa Francesco, al termine della celebrazione della Messa in Coena Domini nel carcere di Regina Coeli, nell’ultimo Giovedì Santo, ha affermato che “una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana!”…

Papa Francesco ha avuto sempre una particolare attenzione per i carcerati. Ricordo la grande commozione che suscitò quando venne a Poggioreale. E ricordo alcune sue parole molto toccanti, quando disse che il primo santo canonizzato è stato un carcerato, riferendosi al buon ladrone. Un carcere “cattivo” non solo non dà speranza a chi è recluso, ma chiude le porte della speranza e della misericordia alla società intera, che invece, proprio in questo momento, ne ha tanto bisogno.