Caparbiamente in dialogo con l’umanità

Con quel mondo, con la sua cultura che sembrava allontanarsi sempre di più dalla Chiesa, Paolo VI scelse di mettersi in dialogo.

Santo subito! Il grido sorto spontaneo dalla piazza il giorno dei funerali di Giovanni Paolo II era solo la logica conseguenza di numerosi segni di santità che Karol Wojtyla aveva disseminato lungo tutto il corso della sua vita. Segni visibili, incontrovertibili, così come lo sono quelli lasciati da Paolo VI e che, nell’imminenza della sua beatificazione, molti, soprattutto fra quanti hanno avuto modo di incontrarlo o di seguirne il pontificato, non faticano a riconoscere. Non si tratta di segni eclatanti, anche se di gesti profetici Paolo VI ne ha compiuti molti. Piuttosto i suoi, sono stati atteggiamenti d’animo, attenzioni che ne hanno fatto un uomo, un sacerdote, un Papa capace di vivere fino il fondo il messaggio evangelico e di rispondere in modo esemplare alla sua vocazione di strumento di Cristo chiamato a vivere e a governare la Chiesa in una delle stagioni più laceranti del secolo scorso. Con quel mondo, con la sua cultura che sembrava allontanarsi sempre di più dalla Chiesa, Paolo VI scelse di mettersi in dialogo, senza chiusure pregiudiziali o barriere ideologiche. Un atteggiamento che oggi non può che essere catalogato tra quei segni che fanno di Paolo VI un uomo santo.

La conferma arriva anche dal card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura che si maturò la sua vocazione al sacerdozio proprio negli anni in cui Montini era arcivescovo a Milano, sua diocesi di origine e proseguì negli studi romani durante gli anni in cui Paolo VI riallacciava il dialogo con il mondo della cultura per troppo tempo rimasto ai margini dell’interesse della Chiesa. “Paolo VI – conferma il card. Ravasi – non si è mai sottratto al dialogo con la cultura e la società moderna anche in una stagione tra le più difficili e pesanti del secolo scorso, una fase storica in cui si andava affacciando non solo la postmodernità ma anche quello che poteva essere definito un vero e proprio post-cristianesimo”. E, quasi a riprova della disposizione montiana al dialogo con la cultura cita un passaggio di quel “Pensiero alla morte” che, alla stregua di un vero e proprio testamento spirituale, Paolo VI stese nel 1965. “Congedandomi dalla scena di questo mondo – è il passaggio ricordato da Ravasi – e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio, dovrei dire tante cose, tante… Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo. Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora su di essa la divina bontà…”. Parole così folgoranti e sofferte sono per il presidente del Pontificio consiglio per la cultura, il suggello più autentico di un amore per l’uomo e per la sua vicenda dolorosa, attestato dall’intero itinerario della sua esistenza terrena. È proprio nel profilo di uomo in dialogo con il mondo, con i suoi splendori e le sue miserie, che si intuisce questo aspetto della santità montiniana. “Fondamentale, al riguardo – afferma ancora il card. Ravasi – , sarebbe svolgere un itinerario all’interno delle encicliche di Paolo VI, a partire dalla Ecclesiam Suam, passando attraverso quelle sociali come la Populorum progressio che rivelava una visione planetaria del problema dello sviluppo dei popoli. Ma certamente una sorta di vessillo emblematico per l’incontro con la vicenda umana nel contesto è rappresentato dalla Gaudium et spes”.

È in questo documento conciliare (significativamente intitolato “La Chiesa nel mondo contemporaneo” che, secondo Ravasi, si percepisce in tutta la sua portata questo aspetto particolare della santità di Paolo VI, l’apertura, l’ansia di incrociare la società nelle piazze secolarizzate, persino nell’ambito dell’ateismo, ansia che lo spinse a creare, nel 1965, il Segretariato per i non credenti, poi inglobato da Giovanni Paolo II nel consiglio oggi presieduto dal card. Gianfranco Ravasi. “Si pensi poi – continua il Cardinale – quanto sia stata tormentata per Paolo VI la pubblicazione dell’Humanae vitae. Spesso sono state giudicate in modo critico alcune sue incertezze apparenti. Ma erano esitazioni e attese che trovavano ragione proprio nella finezza della sua sensibilità nei confronti di una società sempre più variegata, frammentaria e in forte evoluzione. Molteplici sono stati i percorsi lungo i quali Paolo VI si è incontrato con un mondo in profonda trasformazione. Percorsi a cui lo stesso card. Ravasi ha avuto modo di incrociare. “Nell’ottobre del 1962 – ricorda – fui inviato a Roma, agli inizi del Concilio, grazie a una borsa di studio sostenuta dal card. Montini, all’epoca arcivescovo della mia diocesi. Intrapresi così gli studi alla Gregoriana, nel tempo fecondo del Vaticano II. Nel giugno del 1963 era tra la folla che in piazza San Pietro accolse con gioia l’elezione di Paolo VI e la sua immediata apertura al dialogo con i giovani. Noi sentivano vivo quel suo interesse, forse non facilitato dalla sua naturale riservatezza. In mezzo a tante persone che parlavano dei giovani, il nuovo Papa scelse sin da subito di parlare ai giovani”. Confermava in questo modo la sua volontà, il suo desiderio di andare in mezzo alla gente, alle diverse situazioni, per capirne il linguaggio, lasciarsi interpellare dalle loro domande, dalle loro menti e dal loro cuore. “Si trattava – conclude Ravasi – di una genuina operazione culturale, dettata dalla consapevolezza che la cultura non fosse solo l’aristocrazia del pensiero, delle arti, della scienza, ma una categoria antropologica che abbraccia ogni esperienza umana cosciente, personale e sociale”. L’intuizione, insomma di un uomo, santo, già prima di qualsiasi riconoscimento ufficiale.

Massimo Venturelli