Boom di cesarei: la gravidanza non è una malattia!

Di Pietro: in Italia un eccesso di medicalizzazione.

In Italia, una donna su tre (29%) per mettere al mondo un figlio fa ricorso al taglio cesareo, che in quasi la metà dei casi (43%) si rivela “inappropriato”. Hanno fatto scalpore i dati diffusi in questi giorni dal ministero della Salute su un’indagine dei Nas, avviata quasi un anno fa in 78 diverse strutture ospedaliere pubbliche e private. Le “linee guida” dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) in materia parlano di non più del 10-15 % di cesarei sul totale, come della percentuale superata la quale diventa lecito dubitare della loro appropriatezza. All’inizio dell’anno appena trascorso (gennaio 2012), il ministero della Salute ha diffuso le Linee guida, dal titolo “Taglio cesareo: una scelta appropriata consapevole”, con le quali si cerca di operare una “inversione di tendenza” nel ricorso al taglio cesareo, che in Italia “ha raggiunto livelli estremamente elevati” e presenta “una spiccata variabilità nel confronto tra le Regioni, ma anche all’interno di una medesima realtà regionale”. Quattro, dicono gli esperti del Ministero, i casi in cui ricorrere al taglio cesareo è opportuno: il feto in posizione podalica, la placenta previa, la presenza di una mamma con diabete gravidico, il timore di trasmissione per via naturale o fetale di malattie infettive. Maria Michela Nicolais, per il Sir, ne ha parlato con Maria Luisa Di Pietro, docente di igiene all’Università Cattolica di Roma e bioeticista.

Una donna su tre partorisce con il taglio cesareo, che in quasi la metà dei casi è ingiustificato: come leggere questo dato?

È un dato che va studiato, soprattutto per capire le ragioni che hanno portato all’incremento dei parti cesarei in Italia, e quindi all’esposizione di un possibile aumento di rischi per la donna e il neonato. In genere si legittima il ricorso al cesareo come parto richiesto dalla madre, che a sua volta lo richiede per paura dei dolori del parto. La seconda ragione che porta a optare per il cesareo risiede nel tentativo di ridurre il tempo di assistenza sanitaria: il parto naturale richiede tempi più lunghi in cui la donna va seguita dagli operatori. La terza ragione ha a che fare con la medicina difensiva, e cioè con la paura di ginecologi e ostetrici di avere a che fare con incidenti non previsti durante il parto, le cui conseguenze sulla donna e il bambino possono ripercuotersi su di loro. È vero, infatti che il parto naturale è tale, ma è anche vero che bisogna essere capaci di saperlo gestire, soprattutto se si verificano situazioni impreviste non messe in conto.

Il taglio cesareo viene pagato o rimborsato dal Servizio sanitario nazionale pressoché il doppio rispetto a un parto naturale: quanto incide il fattore economico?

Certamente il grido d’allarme del ministero è nato dalla spesa, visto che il taglio cesareo ha costi più elevati, ma non è questa l’unica valutazione. A fronte, infatti, di costi elevati, il parto cesareo introduce, all’interno di una realtà che potrebbe preferibilmente svolgersi in modo naturale, un intervento chirurgico che espone a un rischio maggiore sia la madre sia il bambino, e che ad esempio fa perdere anche quell’interazione tra i due che si verifica nei primissimi momenti dopo il parto, durante i quali una donna che partorisce con il cesareo è ancora addormentata. In sintesi, ad esclusione delle situazioni indicate nelle Linee guida, il parto naturale è sempre preferibile. Ci possono anche essere altre situazioni in cui valutare il ricorso al cesareo, ad esempio in presenza di un parto gemellare (anche se ormai non è più così necessario come un tempo): la valutazione, però, appartiene esclusivamente al medico, che non è un semplice esecutore di ciò che vuole il paziente, ma deve riferirsi alle Linee-guida e alle specifiche società mediche per valutare in scienza e coscienza come intervenire.

Come valutare il ricorso sempre più frequente all’anestesia epidurale?

Anche in questo caso, la fisiologia viene prima della patologia. Oggi, invece, capita di assistere alla medicalizzazione della gravidanza, considerata come una patologia e non come un evento naturale, quale esso è: altrimenti non si spiegherebbe come ancora oggi, in molte parti del mondo, le donne partoriscano da sole. Nessuna esclusione pregiudiziale dell’epidurale, a patto però che quello della donna sia realmente un consenso informato: l’epidurale, infatti, non elimina tutto il dolore, anche perché una quota di dolore serve alla donna per aiutarla nella fase di espulsione. Si tratta, inoltre, pur sempre di un intervento medico che, come tale, può avere effetti collaterali che possono arrivare, se non s’interviene subito, fino a problemi meningei o alla paralisi degli arti inferiori. Per questo è necessario che tale anestesia venga eseguita da un’équipe medica adeguatamene preparata.

Come rispondere ai pregiudizi che vengono da un’interpretazione distorta del versetto della Genesi “Con dolore partorirai figli”, spesso utilizzato per tacciare la Chiesa di “dolorismo”?

Anzitutto contestualizzando le Scritture. Quella frase viene pronunciata non tanto rispetto al parto, quanto rispetto alla presenza di un elemento – il dolore – che nel paradiso terrestre non c’era, e che è apparso solo dopo il peccato originale. Il magistero della Chiesa ha sempre dato un valore salvifico alla sofferenza, che però non è necessariamente legata al dolore fisico, ma ha un significato molto più ampio, di tipo psichico, e che può essere presente anche in assenza dello stesso dolore fisico, il quale di per sé può anche non causare sofferenza. Dare un significato ad una sofferenza che non si può attenuare in nessuna maniera – come nel caso dei malati terminali – non significa però ricercare la sofferenza in sé stessa. Anche Gesù, sulla Croce, ha chiesto aiuto.