Cultura

Basaglia e la società che rifiuta la follia

A 40 anni dalla morte del grande psichiatra la nostra cultura non ha ancora accettato l’idea che pazzia e ragione sono due aspetti della nostra condizione che vanno affrontati entrambi con umanità

«Io non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare sia la ragione quanto la follia». A 40 anni dalla sua scomparsa sonno ancora attuali le parole di Franco Basaglia (Venezia, 1924-1980), lo psichiatra “utopista” dell’Istituzione negata (come s’intitola uno dei suoi libri più famosi), grandemente amato oppure fortemente contestato, ispiratore della rivoluzionaria legge 180 del 1978 – lo stesso anno in cui viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale – che portò alla fine dei manicomi, istituzioni chiuse concepite più per contenere che per curare i malati di mente.

Analizzare come le sue idee sono state attuate aiuta a comprendere in che modo è cambiata la psichiatria. È divenuta più attenta alla dimensione umana del paziente rispetto all’esigenza di allontanare “il diverso”. Ha preso coscienza che «conta più il malato che la malattia», come sosteneva lo psichiatra veneziano. È evidente leggendo alcuni recenti libri. Anthony David (1958), neuropsichiatra inglese direttore dell’Institute of Mental Health presso l’University College of London, nel volume Nell’abisso (traduzione di Camilla Pieretti, Il Saggiatore, euro 23) narra con passione storie di menti spezzate, che hanno toccato il fondo nelle più insondabili voragini della psiche umana. È un viaggio nei misteri della nostra vita inconscia che descrive storie di casi umani incontrati durante la professione: da particolari condizioni patologiche, come quelle di una giovane donna con schizofrenia e morbo di Parkinson insieme (quasi un paradosso perché la prima è una patologia da eccesso di dopamina, un neurotrasmettitore cerebrale, mentre la seconda è causata dalla sua carenza), al delirio nichilistico associato alle rare sindromi di Capgras e Cotard, all’anoressia nervosa e ai disturbi della condotta alimentare, ai complessi aspetti neuropsicologici legati alla riemersione dal coma e agli stati vegetativi o di minima coscienza. Il suo scopo è duplice: epistemologico e umanistico. «Se per secoli i filosofi hanno smantellato l’illusione dell’unità – scrive – spesso è solo in seguito a una lesione cerebrale che ci rendiamo conto della giuntura, che iniziamo a vedere ‘bio-‘ e ‘psico-‘ separarsi», ma «a volte è solo guardando all’anatomia del cervello che riusciamo a dare un senso alle reazioni di una persona in relazione alle lesioni subite”, per cercare di “colmare il divario conoscitivo tra chi soffre di disturbi e chi no».

Anteporre la storia umana del malato alla dimensione nosologica della malattia è la stessa idea di Franco Basaglia, anche se la chiusura dei manicomi prevista dalla “sua” legge 180 avvenne solo vent’anni più tardi. Addirittura quasi il doppio del tempo fu necessario per abolire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, trasformati poi nelle più razionali Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Un passaggio complesso sul piano legislativo e un problema non scontato su quello scientifico. Solo dieci anni fa la Commissione parlamentare d’inchiesta sul SSN fotografava per questo problema una situazione drammatica: «Se chi è internato in un ospedale psichiatrico giudiziario è li per essere curato – riferiva il presidente Ignazio Marino – abbiamo trovato un fallimento totale. Ciascun paziente ha contatto con uno psichiatra meno di un’ora al mese».

Illuminante a questo riguardo il saggio di Jacopo Santambrogio, Gli intravisti. Storie dagli ospedali psichiatrici giudiziari (Mimesis, euro 20), che raccoglie diciotto testimonianze raccontate in prima persona da pazienti internati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Reggio Emilia (Emilia-Romagna), Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia) e Montelupo Fiorentino (Toscana) prima della chiusura di queste istituzioni totali. «I pazienti che narrano le loro storie in questo libro – scrive Santambrogio – hanno tutti una cosa in comune: sono intravisti. Raccontano le proprie condizioni di vita nell’istituzione, i loro desideri, le loro speranze per il futuro». Pongono una serie di interrogativi sulla malattia mentale, le sue origini, i percorsi terapeutici (farmacologici e riabilitativi), il rapporto tra la malattia e il reato che li ha condotti dove si trovano. Tutti hanno alle spalle una storia di sofferenza e di percorsi tortuosi perché le istituzioni dove hanno trascorso molti anni della loro vita li hanno in parte celati agli occhi della ‘gente comune’. “Sono dunque persone ‘viste’ e ‘non viste’ allo stesso tempo”. Sono “folli rei” e “rei folli”, che si trovano a un estremo di quel disagio psichico “che nel corso della storia ha interrogato molti psichiatri e lasciato sempre aperto la domanda, da un lato sul limite tra follia e reato, dall’altro sull’insorgenza di una malattia psichica in un soggetto autore di reato ritenuto, al momento del fatto criminoso, stabile dal punto di vista psichico”.

S’impone dunque una riflessione sulle tematiche della psichiatria odierna e sulla sua stessa natura. Un argomento affrontato nella prefazione da uno dei maggiori psichiatri italiani, Eugenio Borgna (1930), quando ricorda che «ci sono due psichiatrie, quella che considera le esperienze psicopatologiche come la conseguenza di cause di matrice neurobiologica, non interessandosi dei problemi interpersonali e sociali dei pazienti, e quella che considera le esperienze psicopatologiche come la risultante di cause non solo biologiche, ma anche psicopatologiche e sociali». Questa seconda è la “psichiatria umana” che dà grande importanza alla vita interiore dei pazienti per giungere alla conoscenza del loro modo di essere e dei loro disturbi in un contesto relazionale fondato sulla fiducia. È l’approccio clinico più consono a Borgna, che nel suo ultimo libro, Speranza e disperazione (Einaudi, euro 12), supera la prospettiva puramente psichiatrica di queste due dimensioni dell’esistenza per ricordarci che la speranza, “passione del possibile”, è un percorso che chiunque può apprendere per superare la disperazione.

da avvenire.it