Andrea Cecilia: su Largo San Giorgio il Sonno della Ragione

Le improbabili ricostruzioni e narrazioni dell’incredibile e colossale caso, costruito dai giornali, sui presunti abusi edilizi di Largo San Giorgio non possono che lasciare amareggiati.
Chiunque, fidando sul comune buon senso, dovrebbe aver chiaro che realizzare un Polo Culturale al centro storico di Rieti, ha poco a che vedere con un “abuso edilizio”.
Un Polo Culturale, un servizio per la collettività, non solo non può essere in contrasto con le norme urbanistiche ma, al contrario, rispetto alle destinazioni d’uso preesistenti (officine, fabbriche, residenze), rappresenta, semmai, un “necessario adeguamento” alle norme stesse. Decretare, al contrario, che il polo culturale di San Giorgio costituisca un abuso edilizio insanabile, ci farebbe trovare nel curioso paradosso che il Comune di Rieti sarebbe costretto ad ordinare il ripristino dello stato dei luoghi e, conseguentemente, ordinare il ripristino di opifici al centro storico. Questo si che sarebbe in contrasto con le norme urbanistiche.
Purtroppo, restando impantanati in interpretazioni, opinioni, cavilli burocratici e perdendo di vista il mirabile recupero e l’irripetibile esperienza culturale che hanno rappresentato “Le Officine”, si fa fatica a trovare una soluzione. Tra le decine e decine di pratiche prodotte per realizzare l’opera, cercando bene, se ne possono trovare molte di situazioni che lasciano spazio ad interpretazioni (e persino, forse, qualche errore).
Lascia una profonda amarezza pensare che il tutto nasce da una speculazione politica, promossa da chi, con pochi argomenti concreti da spendere e senza troppi scrupoli, si è dimostrato persino incurante del danno che questa “operazione” avrebbe causato all’intera città, privata, incredibilmente, di un eccellente Polo Culturale che non aveva pari in Italia.
Sicuramente si giungerà a fare la necessaria chiarezza grazie all’imparzialità rigorosa della magistratura, ma appare altrettanto chiaro che, per la complessità del caso, ciò non potrà che giungere a conclusione di una interminabile vicenda burocratica/giudiziaria. Quando si giungerà a comprendere che tutto era corretto e ammesso dalle norme o, eventualmente, sanabile, si dovrà constatare che l’unico risultato raggiunto sarà l’aver speso una quantità indicibile di denaro dei contribuenti e (malauguratamente) la cessazione definitiva delle attività che si erano avviate nelle “Officine”.
I reati, gli abusi contestati, ricostruiti nel corposo fascicolo di indagine che ha condotto al sequestro, sono fondati su una serie di presunti errori formali. La procura, in seguito agli esposti e alle pubbliche denunce di “onorevoli cittadini”, è stata indirizzata ad indagare (legittimamente) su presunte irregolarità commesse nel procedimento amministrativo che ha condotto alla realizzazione del complesso. Non entro in merito al rigore con cui la Procura ha condotto le indagini e al conseguente decreto di sequestro, probabilmente un atto dovuto, viste le eccezioni sollevate dai vari Enti coinvolti. Ma preme, soprattutto, far rilevare che la questione verte sul presunto errore formale commesso nel presentare i titoli edilizi, quindi, non sul merito, ma sulla forma del titolo.
Ci si interroga da oltre un paio d’anni se sia stato legittimo presentare una DIA, piuttosto che un Permesso di Costruire, piuttosto che, addirittura, un Piano di Recupero. Non ci si interroga, però, se il risultato sia comunque legittimo o legittimabile, ma se il titolo sia stato idoneo, se il percorso sia stato corretto.
Anche in merito alla sicurezza sismica ci si interroga, non tanto sulla reale solidità dei fabbricati (il che risulta oggettivamente chiaro, persino ad un non addetto ai lavori), ma se, per caso, siano state effettivamente tutte prodotte, nei modi e nei tempi dovuti, le richieste di autorizzazione sismica. Nessuno ha probabilmente dubbi sul fatto che i lavori siano stati eseguiti in maniera ineccepibile e che le opere siano effettivamente sicure. Ci si interroga piuttosto se fosse legittimo realizzare quelle stupende ed innovative opere di consolidamento, prima della variazione di destinazione d’uso. Ci si interroga se sia stato lecito non aver prodotto ulteriori verifiche al genio civile in seguito alla variazione di destinazione d’uso (non essendo necessario eseguire opere di adeguamento). Si è ritenuto (ad avviso dello scrivente correttamente) che le verifiche prodotte fossero già ampiamente cautelative. L’unico “peccato” commesso (che il buon senso imporrebbe di considerare virtù) è l’aver voluto trovare la strada più semplice e rapida per giungere al risultato.
Come rispondere al “curioso” quesito riportato da un quotidiano locale che si domanda se rappresenti un conflitto di interessi che l’autore di dette opere, colui che le ha progettate, ideate e dirette, cerchi di spiegare in che modo le stesse siano state realizzate, se le stesse rispettino le norme.
Solo una domanda può rispondere a tale quesito: chi mai dovrebbe svolgere questo compito se non il progettista e direttore lavori dell’opera? Non sarebbe assurdo ed inconcepibile che se occupassero altri?

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