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Amnesty: nel 2019 esecuzioni ancora in calo, ma non in Arabia e Iraq

Il rapporto globale 2019 di Amnesty International sulla pena di morte evidenzia, per il quarto anno consecutivo una diminuzione, dai 690 morti del 2018 a 657. E' il minimo degli ultimi dieci anni. Ma risalgono in Arabia Saudita, 184, e sono raddoppiate in Iraq

Sono molte le luci nel rapporto globale sulla pena di morte nel mondo pubblicato oggi da Amnesty International, relativo al 2019. Per il quarto anno consecutivo, le esecuzioni sono diminuite, da 690 del 2018 a 657, al minimo storico degli ultimi 10 anni, con un calo del 5 per cento. Per la prima volta dal 2011, in Asia e nel Pacifico, sono di meno, solo 7, i paesi in cui è stata applicate la pena capitale, e Giappone e Singapore hanno drasticamente ridotto il numero di persone messe a morte, rispettivamente da 15 a 3 e da 13 a 4.

Nessuna esecuzione, ed è la prima volta in dieci anni, in Afghanistan, e nemmeno a Taiwan e in Thailandia. Le Barbados hanno eliminato la pena di morte obbligatoria dalla Costituzione, unendosi ai 142 paesi che nel mondo l’anno abolita nella legge o nella prassi, mentre sono 106 quelli che l’hanno bandita dal loro ordinamento per tutti i reati.

Negli Stati Uniti, rimasto l’unico Paese del continente americano a mantenere la pena capitale, le esecuzioni sono scese da 25 a 22, ma soprattutto la California, che ha il maggior numero di condannati a morte, ha istituito una moratoria ufficiale, e il New Hampshire è divenuto il 21 esimo Stato senza pena di morte. E ci sono progressi verso l’abolizione in Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Kenya, Gambia e Zimbabwe.

Esecuzioni in aumento in cinque Stati

Non mancano però, purtroppo, le ombre. Nei venti Paesi che hanno eseguito condanne a morte nel 2019, quattro hanno aumentato il loro numero, non tenendo conto della Cina, che Amnesty definisce “il principale carnefice al mondo” con migliaia di esecuzioni sulle quali comunque non ci sono dati certi.

In Arabia Saudita 35 morti in più

L’Arabia Saudita ha messo a morte 184 persone, sei donne e 178 uomini, 35 in più rispetto al 2018, e poco più della metà erano cittadini stranieri. La maggioranza era colpevole di reati di droga e omicidi, ma Amnesty ha documentato l’aumento del ricorso alla pena di morte “come arma nei confronti dei dissidenti politici” della minoranza sciita, “e questo è uno sviluppo preoccupante“, spiega Clare Algar, direttrice di Amnesty International per la ricerca e l’advocacy.

La fine di Hussein, terrorista o solo dissidente?

Il 23 aprile 2019, pochi giorni dopo la pubblicazione del rapporto sul 2018, denuncia l’Ong nata nel 1961 a Londra per la difesa dei diritti umani, “c’è stata un’esecuzione di 37 persone, 32 delle quali erano sciiti condannati per ‘terrorismo’ dopo processi basati su confessioni estorte sotto tortura”. Non solo numeri, ma anche nomi. Uno di loro era Hussein al-Mossalem, condannato dal Tribunale speciale dell’Arabia Saudita, “creato nel 2008 per giudicare chi era accusato di reati di terrorismo – si legge nel rapporto – ma sempre più utilizzato per mettere a tacere il dissenso”. “Aveva subito ferite multiple nel periodo in cui era detenuto in regime di isolamento. Inoltre, aveva ricevuto percosse con manganello elettrico e altre forme di tortura”.

L’Iraq in un anno ha raddoppiato le esecuzioni

In Iraq il numero di persone vittime del boia è raddoppiato dalle 52 del 2018 alle almeno 100, soprattutto per l’esecuzione di appartenenti al sedicente Stato islamico. In Sud Sudan le autorità hanno messo a morte almeno 11 persone nel 2019, il numero più alto mai registrato dall’indipendenza del paese nel 2011, e lo Yemen almeno 7, rispetto alle 4 del 2018. Anche il Bahrain ha ripreso le esecuzioni dopo una pausa di un anno, giustiziando tre persone.

In Iran alla forca anche quattro minorenni

In Iran, secondo solo alla Cina nel ricorso alla pena di morte, tra le 251 esecuzioni (due in meno del 2018), quattro hanno riguardato giovani minorenni all’epoca del reato. Mehdi Sohrabifar e Amin Sedaghat, sono stati uccisi in segreto nella prigione di Adelabad a Shiraz, il 25 aprile 2019. Quindicenni al momento dell’arresto, erano stati condannati per stupro plurimo dopo un processo ingiusto. “Non solo non avevano saputo di essere stati condannati a morte – denuncia Amnesty – ma i loro corpi portavano i segni di frustate”.

La mancanza di trasparenza di chi esegue le condanne

Ma anche in Iran il numero delle esecuzioni potrebbe essere maggiore, perché, come in Cina, Corea del Nord e Vietnam, l’accesso alle informazioni è molto limitato .“Persino i paesi più convinti fautori della pena di morte trovano difficoltà nel giustificarne il ricorso e scelgono la segretezza – commenta Clare Algar –  si sforzano di nascondere le modalità di ricorso alla pena di morte, perché sono consapevoli che non reggerebbero al vaglio internazionale”.

Verso il “no” Guinea, Centrafrica, Kenya, Gambia e Zimbabwe

Amnesty registra infine con soddisfazione che il presidente della Guinea Equatoriale ad aprile ha annunciato che il governo introdurrà una normativa atta ad abolire la pena di morte. Sviluppi positivi che potrebbero portare all’abolizione della pena di morte sono stati registrati anche nella Repubblica Centrafricana, in Kenya, Gambia e Zimbabwe. Ma fa notare anche che nelle Filippine ci sono tentativi di reintrodurre la pena di morte per “reati efferati legati a sostanze stupefacenti e frodi”, in Sri Lanka si prepara la ripresa delle esecuzioni dopo oltre 40 anni, e anche il governo federale statunitense ha minacciato di farlo, dopo quasi venti anni..

Amnesty: nessuna prova che scoraggi il crimine

“Dobbiamo continuare a tenere alta l’attenzione verso l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo – conclude Algar – è una pena disumana e ripugnante e non esistono prove attendibili che essa scoraggi i reati più della pena detentiva. La vasta maggioranza dei paesi lo riconosce e vedere che le esecuzioni continuano a diminuire in tutto il mondo è incoraggiante”.

Il Papa e la Chiesa: pena di morte inammissibile

Parole che riecheggiano quelle pronunciate più volte da Papa Francesco, che nell’agosto del 2018 ha approvato il nuovo testo del Catechismo della Chiesa Cattolica che definisce la pena di morte “inammissibile, perché attenta all’inviolabilità e alla dignità della persona”, per cui la Chiesa “si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.

Offrire al condannato la possibilità di riparare

Il 27 febbraio di un anno fa, in un videomessaggio al primo Congresso mondiale contro la pena di morte, nella sede del Parlamento europeo, Francesco ha ricordato che “per proteggere la società dal male che alcuni individui possono causare” la soluzione non è la pena capitale. Il Papa si è detto convinto che “l’umanità può affrontare il crimine, oltre che rifiutare il male, offrendo al condannato la possibilità e il tempo di riparare il danno commesso”.

La riabilitazione del reo, beneficio per la società

Di fronte al Congresso degli Stati Uniti, unica nazione americana a non aver abolito la pena di morte, il 24 settembre 2015, il Pontefice argentino si era detto convinto che “l’abolizione globale della pena di morte” “sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini”. Aveva appoggiato l’appello abolizionista dei vescovi statunitensi concludendo che “una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione”.

Da Vatican News