Anniversario Sisma 2016

Alla ricerca del «domani del terremoto»

Nel sesto anniversario del tragico sisma del 24 agosto 2016, la comunità di Amatrice si è ritrovata nel campo sportivo per la Santa Messa presieduta dal vescovo Domenico, anche quest'anno trasmessa in diretta su RaiUno

Nel sesto anniversario del tragico sisma del 24 agosto 2016, la comunità di Amatrice si è ritrovata nel campo sportivo per la Santa Messa presieduta dal vescovo Domenico, anche quest’anno trasmessa in diretta su RaiUno. er monsignor Pompili, ultima celebrazione in ricordo delle vittime del sisma come pastore della Chiesa di Rieti, visto il suo prossimo trasferimento a Verona.

«Amatrice è chiamata città degli italiani», ha detto il vescovo all’inizio della celebrazione. «Ed a ragione. Perché se non fosse stato per l’istantanea solidarietà di tante donne ed uomini, già all’alba tragica di sei anni fa, molti oggi non sarebbero qui». Una «solidarietà concreta e immediata ha contagiato bel al di là dei confini nazionali». Di qui, la necessità di «dire grazie all’Italia perché attraverso il suo Stato ha disposto generosamente risorse perché la vita possa rinascere».

Un grazie detto «pensando a quelli che sei anni fa scomparvero in un baleno. E per vivere l’Eucaristia che è il rendimento di grazie più incredibile. Si tratta infatti di rendere grazie a Dio per la morte e resurrezione del suo Figlio perché la speranza con la S maiuscola prenda piede nella nostra vita: è questa fede che ci spinge a ritenere che quei legami che costituiscono la terra ferma della nostra comunità non si dissolvono, ma ritrovano vita in Dio».

Sotto il sole montano di fine agosto, tra i familiari delle vittime seduti nelle prime file, qualche lacrima di dolore per quanto accaduto sei anni fa, ma anche tanto desiderio di speranza e rinascita, ora che nel paese iniziano a vedersi i segnali rumorosi e tangibili della ricostruzione. Presenti istituzioni, autorità locali e nazionali, ma anche i soccorritori che aiutarono, scavarono, trassero in salvo. «È anche grazie a loro che siamo qui», ha commentato sugli spalti il direttore della Caritas di Rieti, don Fabrizio Borrello.

«Filippo gli rispose: Vieni e vedi. Filippo non si scompone affatto dinanzi a Natanaele, che è poi il nome di Bartolomeo. Questi è un tipo tagliente, e per niente accomodante, che replica con sarcasmo a Filippo, entusiasta per l’incontro con Gesù, che però ai suoi occhi è solo uno sconosciuto. Di qui l’invito perentorio che si sente rivolgere: Vieni e vedi. Delle persone, come delle cose, non bisogna parlare per sentito dire o per pregiudizio, ma andando di persona a vedere», ha detto nell’omelia monsignor Pompili, invitando a non fidarsi delle chiacchiere o ancor peggio dei lamenti da social, ma preoccupandosi di verificare la verità delle cose.

«E che cosa si vede venendo qui ad Amatrice dopo 6 anni? A prima vista, tutto sembra fermo all’istantanea della torre che si erge isolata in mezzo al deserto. Ma se si guarda con più attenzione, si scopre che sotto c’è un cantiere, finalmente in movimento. Appena più su nell’area del Don Minozzi comincia a prendere forma la “Casa del futuro”. Appena più giù si delinea il nuovo ospedale di Amatrice. E poi ci sono gru sparse qua e là. Per vedere, dunque, bisogna venire. Dopo l’estenuante fase iniziale, ora è il tempo della ricostruzione, ma per arrivare a quella della ri-generazione vera e propria, occorre “venire”. Tutti devono venire: pubblico e privato, stato e società civile, operatori economici ed ordini professionali. Senza il coinvolgimento di tutti, infatti, l’attesa potrebbe allungarsi ancora».

«Cosa vede chi verrà? Non solo quello che si vede ad occhi nudi, ma anche quello che va immaginato. Quel che vedremo, infatti, non può essere la semplice rievocazione di quel che fu Amatrice». Un paese sorto in una zona altamente sismica, che non è certo nuova a movimenti tellurici.

«Non è certo la prima volta che Amatrice rinasce – ha ricordato il vescovo – nel corso della sua storia secolare diverse sono state le stagioni, ogni volta imprevedibili. Non solo per via dei terremoti dal Medioevo all’età moderna. Come all’inizio del Novecento, quando i grandi armentari e i pastori di Amatrice, dettero nuovo vigore alla pastorizia che sembrava già allora destinata ad un rapido declino, rivitalizzando tutte le attività ad essa collegate, che prosperarono per almeno un altro secolo ancora. I nostri bisnonni ebbero immaginazione e non si arrestarono a quel che cadeva sotto i loro occhi. Videro oltre. Tale sguardo non schiacciato sul presente, ma aperto al futuro, non è senza conseguenze. Richiese allora spirito di iniziativa, coraggio e sacrificio. Tali sono oggi le risorse indispensabili per affrontare un futuro tutto da vedere. Perché ci si muova con creatività e non con ripetitività; con audacia e non con paura; con disinteresse e non con la sola ricerca dell’utile proprio».

Una necessità assoluta, quella di guardare al futuro e al presente, senza rattrappirsi su uno sguardo contristato e nostalgico sul passato, una «lezione che riguarda l’intero Paese», e non solo i paesi colpiti dal terremoto del 2016. Un’Italia che «deve imparare a ri-nascere, a ri-partire, a ri-cominciare». Perché «così è la vita che non si dà mai una volta per tutte, ma chiede ad ogni generazione di riappropriarsi della stessa».

Monsignor Pompili inquadra così il «domani del terremoto».

«Non più il 24 agosto, quando comunque continueremo a serbare grata e struggente memoria delle vittime, ma ora». Perché «è adesso il momento di vedere oltre e di scorgere il domani».