Al santuario de “La Foresta” la “Vergine fatta Chiesa” insegna a farsi bambini

Un sabato mattina di festa al santuario della Foresta: quello più “intimo” e meno noto al grande pubblico, dei santuari francescani della Valle Santa, ma assai caro ai reatini che amano salirvi per onorare colei che Francesco amava chiamare come Signora e Regina, e con il particolare titolo di “Vergine fatta Chiesa”.

A lei è dedicata la nuova immagine che è stata benedetta nel santuario denominato appunto “Santa Maria della Foresta”, con il rito aperto all’esterno, sotto la guida del direttore dell’Ufficio liturgico diocesano, il francescano padre Ezio Casella.

Dal piazzale del santuario, passando accanto all’orto curato dai ragazzi della Comunità Mondo X, la processione del vescovo Domenico, dei frati (oltre a padre Ezio c’è il guardiano di Poggio Bustone e cappellano della Foresta padre Renzo Cocchi, e due dei tre frati della Comunità interobbedenziale reatina, il minore padre Marcello e il conventuale padre Luigi) con i diaconi e i fedeli, seguendo l’immagine del Crocifisso di San Damiano caro al Poverello d’Assisi, raggiunge, passando dal retro, la piccola chiesetta del convento, dedicata a Maria nascente.

Qui, nella parete che fiancheggia l’altare, è pronta l’immagine della Vergine dell’uva che, seguendo lo spunto di padre Ezio, l’artista romano Piero Casentini, pittore (ma anche scultore) assai legato al mondo francescano, ha appositamente realizzato per questo luogo che richiama, nella fiorettistica francescana locale, il miracolo dell’uva, nel ricordo di quell’episodio in cui il santo di Assisi, ospite del prete della pieve al quale il popolo, ansioso di incontrare Francesco, calpestò la vigna distruggendola, riuscì ad assicurargli un raccolto più che abbondante.

Quell’uva ha un significato simbolico, nell’immagine dipinta da Casentini in cui la Madonna sorregge il Bambino Gesù che a san Francesco inginocchiato sulla destra porge, quasi “spinto” dalla madre, un grappolo, mentre sulla sinistra un angelo si fa testimone di questo atto. Richiama un po’ il partecipare di Francesco, e di ogni credente, al calice di sofferenza del Cristo. E Maria si fa un po’ “garante” di questa “cristificazione” del credente, perché lei rappresenta la Chiesa che appunto dona Cristo, e il suo mistero pasquale, agli uomini.

“Vergine fatta Chiesa” la chiamava Francesco, e le litanie in onore della Madonna, nel canto che raggruppa i titoli a terzine concluse ogni volta da questa invocazione “Vergine fatta Chiesa, prega per noi”, accompagnano la processione che, giunta in chiesa, prosegue nel rito di benedizione dell’immagine mariana impartita da monsignor Pompili, il quale poi nell’omelia della celebrazione eucaristica che segue, dà una particolare lettura della vocazione propria della Chiesa a essere come Maria che sorregge e presenta il suo divino Bambino: un po’ madre ma anche un po’ “bambino”.

A partire dal brano evangelico della Messa del giorno, sull’elogio che Gesù fa di un bambino, il presule invita a chiedersi chi sia tale bambino elogiato: «Chi è, se non Gesù stesso, che è il primo “bambino del regno”, è il figlio di Maria?».

Abbondanza di insegnamento, per una società che «rischia di essere un po’ puericentrica, in cui il bambino è il despota cui tutti devono essere sacrificati», con quella «tendenza di alcuni adulti a “morire” per i bambini, che sono anche difficoltà, fatica», mentre all’opposto troviamo «la tendenza a circoscrivere i bambini, come quando si scopre che ci sono persino viaggi aerei vietati ai bambini, o anche quando noi preti siamo infastiditi al grido di qualche bambino… Mi sembra segno di scarso equilibrio!». Non è questo il “bambino” che viene elogiato nel Vangelo come “emblema” di chi è pronto per il regno dei cieli.

Il valore dell’elogio sta nel fatto, dice Pompili, che un bimbo è la «quintessenza della ricettività, una carta assorbente, che accoglie, senza filtri, senza sovrastrutture: l’ideale di chi accoglie Dio, sa aprirsi all’altro, al nuovo, all’inedito con una scioltezza che noi adulti ci sogniamo. Il bambino è concreto, a differenza dell’adolescente che comincia già ad essere un sognatore. Le sue domande incalzanti sono il segno di questa sua concretezza. È uno che va alla realtà», Poi il bambino «è uno che vuole crescere, che ha la smania di crescere. È il campione dello sviluppo, perché non tende solo a gestire lo status quo, ma è proiettato verso il futuro».

Infine è anche l’emblema della fiducia, «perché si affida, come nell’immagine, alla madre: la certezza di avere qualcuno che lo garantisca. È l’uomo pieno di fiducia, perché sa in chi confida».

Un insegnamento a farsi “bambino” per la Chiesa è quello che monsignor Domenico vuole porre alla riflessione: «una Chiesa innanzitutto concreta, che sta alle domande essenziali, che si interroga sulle domande vere della vita. Che riesca a risvegliare le domande, che non si adagi dietro il tran tran di domande che spesso ci fanno perdere nel “penultimo” e invece perdono di vista ciò che è veramente “ultimo”».

Poi una Chiesa «che voglia crescere, cioè che non si accontenti semplicemente di ciò che è, o peggio di ciò che è stata, ma sappia essere sempre rosa dal desiderio di trovare nuove strade, di percorrere nuovi tratti di via, perché non si vive di rendita, soprattutto nella fede, non ci si può cullare sugli allori di “ciò che fummo”, ma a ogni generazione è chiesto di rinnovare la nostra capacità di essere evangelizzatori».

E da ultimo, incalza Pompili, «una Chiesa che sappia far crescere la fiducia in Dio», perché occorre «avere la sicurezza affettiva del bambino che sa che al di sopra dei problemi, delle difficoltà, degli imprevisti ha comunque sempre la madre pronta accanto a dire “Eccomi”, cioè “Ecco me”»: senza un atteggiamento del genere «non si va da nessuna parte, neanche nella vita economica, sociale. E noi abbiamo bisogno come il pane di ritrovare questa fiducia che però, per essere fondata, per non essere soggetta a tanti disincanti, può essere soltanto quella legata a Dio, che ci assicura che nonostante le contraddizioni, i momenti bui della vita c’è per ciascuno di noi un destino positivo che ci attende».