Reatini

Addio a Cesare Valentini, magister d’altri tempi

Se ne è andato un altro storico esponente della classe docente che ha forgiato generazioni di liceali al “Varrone”. Mercoledì pomeriggio i funerali a Regina Pacis. Il ricordo di un nostro redattore che ne fu allievo

Se ne è andato anche Cesare Valentini. Così un po’ repentinamente, sereno e lucido fino all’ultimo, raggiungendo la cara Luciana, compagna di una vita, che l’ha preceduto di un po’ di anni in cielo.

«Io vedo la storia, come mi ha insegnato a vederla Tacito»: più o meno queste le ultime parole, riferiscono i figli (ben cinque, la sua nutrita prole: tutti cresciuti nel vero amore per lo studio, o addirittura, si potrebbe dire, nel “culto della cultura” che papà prof e mamma maestra avevano istillato in loro). Lui che era abituato, la storia, a leggerla davvero, alla Tacito, sine ira et studio, facendola filtrare ai suoi allievi attraverso la lente degli autori della letteratura italiana e latina. Poi la “palla” più storica e filosofica la passava a “Gis”, l’altra grande colonna del “Varrone”: il professore Gisberto Fioravanti, andatosene anche lui di recente, dinanzi alla cui grandezza si inchinava. Ma era un sodalizio didattico collaudato, questo “rimpallo” tra letteratura e storia/filosofia fra Valentini e Fioravanti.

Con quest’ultimo e con Myriam Ponziani, i “mostri sacri” che nelle aule del Liceo classico hanno forgiato generazioni di studenti, il più giovane Cesare condivideva le umili origini della più umile terra della provincia, che è il Cicolano. Dalla sua Offeio era sceso ragazzo in città per studiare in Seminario, come tanti a quei tempi. Nelle aule di piazza Oberdan aveva avuto come giovanissimo docente un altro grande quanto umile della vita culturale reatina: un giovanissimo don Giovanni Olivieri, che avrebbe poi ritrovato anni dopo collega al “Varrone”. E ricordava come lo avesse “ciceronato” per bene, Olivieri, allenato a entrare perfettamente nello stile dell’arpinate che da ginnasiale aveva imparato a tradurre come fosse acqua fresca, tanto che – sarà vero o era forse una delle tante sue battute “didattiche”? – i compagni seminaristi, anche giocando a calcio nel cortile, lo apostrofavano «Passa, Ciceró… Tira, Ciceró!».

Alla classe a cui capitava di insegnare, insieme a italiano, anche latino (una ogni tre anni) cominciava dal primo giorno del triennio liceale con questa “fissa”: «In terza liceo (il quinto anno del Classico, per spiegarlo agli “esterni”) almeno uno di voi dovrà rappresentare la nostra scuola al Certamen Ciceronianum di Arpino». E capitò a me di essere selezionato, dopo un’apposita versione tra gli alunni di tutte le terze a loro volta individuati dai rispettivi prof, per essere, in quel 1986, tra i due reatini che si cimentarono nell’annuale Certamen nella cittadina ciociara patria del grande Marco Tullio. Gli brillavano gli occhi quando mi comunicò la notizia, lui che mi aveva tormentato negli ultimi mesi perché, a suo dire, non davo il massimo e allora – mi confessò tanti anni dopo, quando ormai avevo intrapreso la sua stessa professione, quasi chiedendo scusa degli screzi che quella situazione aveva talvolta creato – aveva voluto stuzzicarmi a più non posso perché la grinta venisse tirata fuori come si doveva…

Con Valentini non si scherzava. O meglio, si scherzava, anche parecchio, con le sue barzellette e battutacce “didattiche” (condite sempre da qualche espressione dialettale equicola) e la confidenza che non ti negava, purché non si superasse mai il limite di un’aura autorevole, quasi reverenziale che oggi non esiste più tra i banchi di scuola, a vedere in lui il magister che ti accompagna ma sta troppe spanne al di sopra di te adulescentulus tutto da plasmare.

Lui e la letteratura erano una cosa sola, con una vasta formazione culturale che sapeva di antico seminario, dei tempi in cui già a dodici anni sapevi ben più latino e italiano di quanto ne sappia oggi una matricola universitaria. La vocazione ecclesiastica non era poi sbocciata in lui, e tra i mille sacrifici di una famiglia contadina intraprese la via universitaria a Perugia, inizialmente tentando gli studi di Medicina ma capendo sin da subito (quando svenne alla prima lezione di autopsia a cui lo fecero assistere, ci raccontava) che non era certo quella la sua strada: doveva tornare al suo Cicerone, al suo Tacito, al suo omonimo conquistatore delle Gallie, al suo Seneca. E ai suoi Dante, Petrarca, Ariosto, Manzoni, Leopardi, Verga, Pirandello…

Dalla laurea in Lettere all’insegnamento il passo fu breve. E il grosso degli anni li avrebbe trascorsi al piano superiore di Palazzo degli Studi a insegnare la letteratura italiana e latina. Che trasmetteva con passione e buttandoti davvero “dentro” gli autori e le opere. Con il retroterra “seminariale” che gli era rimasto in modo evidente, considerata tutta l’importanza che dava agli aspetti religiosi della cultura letteraria («E se non ero mezzo prete come ve li spiegavo questi concetti?», chiosava nelle approfondite ore dedicate ai testi danteschi o manzoniani). Senza tema di avventurarsi anche in questioni teologiche e dibattiti di ordine ecclesiale su cui inevitabilmente (e credo forse anche un po’ intenzionalmente) provocava la mia vis polemica nel ribattere a considerazioni che giudicavo fondate su visioni un po’ preconciliari e dunque superate («E vorrei vedere te se fossi cresciuto con la Chiesa di quegli anni!», rispondeva).

Quel passato da seminarista non lo ha mai rinnegato, anzi era uno che ci teneva alla valorizzazione del bagaglio formativo di quegli anni a prescindere da quali siano state le strade poi intraprese, tanto da essere tra i principali artefici degli incontri annuali degli ex alunni del Seminario che cominciarono a tenersi – praticamente fino ad oggi – in primavera.

Come dimenticare quel triennio con otto ore a settimana di lezioni “cesariane”? Pure con un’interruzione forzata: quando – correva l’anno 1985 – il cuore gli giocò un brutto scherzo e dovette fermarsi per qualche mese, non cedette facilmente, scalpitando col cardiologo per tornare in cattedra il prima possibile. Con la passione di sempre, quella che – glielo confesso ora che sta nel “regno della verità”, caro professore – ha costituito per me un modello forse un po’ troppo, poiché, nei pochi anni trascorsi a insegnare italiano e latino al Liceo classico, tendevo a riprodurlo quel modello fino a ripetere, trascorsi oltre vent’anni, alcune sue stesse espressioni e financo battute.

«Sono passati oltre vent’anni, a questi Millennials non puoi riprodurre il modello Valentini!», rimproveravo a me stesso. Ma era troppo forte il ricordo.

Modello o no, comunque, credo – da insegnante, da giornalista, da operatore pastorale – che buona parte della mia passione per la trasmissione di una cultura che sia anche educatio animi e amor sapientiæ lo debba a lui.

A Dio, caro prof!