78. “Deus caritas est”. Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi

Di fronte al dolore e alla sofferenza, i cristiani pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi.

Volgiamo l’attenzione alla parte conclusiva della “Deus Caritas est”, prima Enciclica dell’attuale Pontefice, Benedetto XVI. Questa parte del testo, offre un’interessante riflessione circa la responsabilità della Chiesa nell’azione caritativa. Il tema, presentato tenendo conto di tanti aspetti, già discussi nei precedenti articoli, trova una sua sintesi al n. 38 del documento quando viene richiamata la figura veterotestamentaria di Giobbe e in particolare gli interrogativi che egli si pone in merito alla presenza del male nel mondo e il possibile intervento di Dio. Perché Dio non interviene di fronte al dolore e la sofferenza dell’umanità? È una domanda che scuote l’animo umano, già scosso dalle prove che la vita riserva a tutti e a ciascuno. Una domanda che spontaneamente emerge nella coscienza dell’umanità di fronte alle tragedie che essa attraversa, soprattutto quelle di cui l’uomo stesso si rende responsabile.

Dove è Dio quando l’uomo soffre? Interessante la sottolineatura presentata nell’Enciclica quando ricorda che Gesù stesso soffre e Dio padre non interviene. Gesù, come ogni altro uomo, grida a Dio il suo bisogno di aiuto, grida forte la necessità di averlo vicino, dicendo «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). L’Enciclica risponde a questa incertezza: «Spesso non ci è dato di conoscere il motivo per cui Dio trattiene il suo braccio invece di intervenire» (n. 38) come del resto non impedisce a l’uomo di chiedergli aiuto e domandargli perché non interviene. Si tratta quindi di andare oltre la propria sofferenza e affidarsi a Dio, saper guardare al di là della contingenza nella certezza di un piano d’amore che Dio stesso sta costruendo la felicità e la salvezza dell’uomo. In fondo è l’esempio di Abramo, ripreso anche dal pensiero filosofico di Kierkegaard, che torna con dirompente efficacia: come si può chiedere ad un padre di sacrificare il proprio figlio solo perché è Dio che lo chiede ? Eppure l’indicazione è evidente: superare la legge morale per immergersi nella fede in Dio.

L’unica vera domanda che ha senso tollerare in questa prospettiva è quella riportata al capitolo 6 dell’Apocalisse: «Fino a quando esiterai ancora, Signore, tu che sei santo e verace?». La risposta e semplice e illuminante, tanto da fondare lo stile di vita del cristiano e la fornisce s. Agostino: «Si comprehendis, non est Deus » – Se tu lo comprendi, allora non è Dio. La nostra protesta non vuole sfidare Dio, né insinuare la presenza in Lui di errore, debolezza o indifferenza. Per il credente non è possibile pensare che Egli sia impotente, oppure che «stia dormendo» (cfr 1 Re 18, 27). Piuttosto è vero che perfino il nostro gridare è, come sulla bocca di Gesù in croce, il modo estremo e più profondo per affermare la nostra fede nella sua sovrana potestà. I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella «bontà di Dio » e nel « suo amore per gli uomini» (Tt 3, 4). (n. 38).

Dio chiede pazienza anche di fronte all’insuccesso e alla sofferenza. La pazienza è il frutto della speranza. La fede, la speranza e la carità, sono le coordinate dell’agire umile del cristiano che confida in Dio perché Egli chiede all’uomo ciò che Egli stesso ha chiesto a se stesso: «(…) La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! In questo modo essa trasforma la nostra impazienza e i nostri dubbi nella sicura speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità Egli vince (…)» (n. 38).

Dio padre non ha abbandonato il suo unico figlio sofferente, Gesù stesso ha chiamato gli uomini amici, nessun uomo potrà quindi essere abbandonato da Dio. Il segreto della carità è riproposto dal Papa citando figure di santi e sante di Dio, spiegando le loro scelte e le caratteristiche essenziali del loro comportamento. L’Enciclica sottolinea in modo particolare il movimento monastico a servizio della carità, ma ancora più presenta la madre di Dio come modello eccelso di carità: «(…) la troviamo impegnata in un servizio di carità alla cugina Elisabetta, presso la quale resta “circa tre mesi” (1, 56) per assisterla nella fase terminale della gravidanza.

“Magnificat anima mea Dominum”, dice in occasione di questa visita – “L’anima mia rende grande il Signore” – (Lc 1, 46), ed esprime con ciò tutto il programma della sua vita: non mettere se stessa al centro, ma fare spazio a Dio incontrato sia nella preghiera che nel servizio al prossimo – solo allora il mondo diventa buono. Maria è grande proprio perché non vuole rendere grande se stessa, ma Dio. Ella è umile: non vuole essere nient’altro che l’ancella del Signore (cfr Lc 1, 38. 48). Ella sa di contribuire alla salvezza del mondo non compiendo una sua opera, ma solo mettendosi a piena disposizione delle iniziative di Dio. È una donna di speranza: solo perché crede alle promesse di Dio e attende la salvezza di Israele, l’angelo può venire da lei e chiamarla al servizio decisivo di queste promesse» (n. 38). Una scelta che interroga personalmente ogni credente.