75. “Deus caritas est”. La riflessione di Papa Benedetto XVI sui responsabili ecclesiali dell’agire caritatevole

«La Chiesa in quanto famiglia di Dio deve essere, oggi come ieri, un luogo di aiuto vicendevole e al contempo un luogo di disponibilità a servire anche coloro che, fuori di essa, hanno bisogno di aiuto».

L’intuizione di Papa Paolo VI relativa all’istituzione del Pontificio Consiglio Cor unum, organismo della Santa Sede responsabile per l’orientamento e il coordinamento tra le organizzazioni e le attività caritative promosse dalla Chiesa cattolica, è citato da Papa Benedetto XVI nella “Deus caritas Est” come lo strumento più importante per chiarire «(…) che il vero soggetto delle varie Organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio di carità è la Chiesa stessa – e ciò a tutti i livelli, iniziando dalle parrocchie, attraverso le Chiese particolari, fino alla Chiesa universale» (n. 32).

Aspetto, questo, ulteriormente sottolineato dal Pontefice, quando ricorda il rito dell’Ordinazione episcopale: «(…) il vero e proprio atto di consacrazione è preceduto da alcune domande al candidato, nelle quali sono espressi gli elementi essenziali del suo ufficio e gli vengono ricordati i doveri del suo futuro ministero. In questo contesto l’ordinando promette espressamente di essere, nel nome del Signore, accogliente e misericordioso verso i poveri e verso tutti i bisognosi di conforto e di aiuto». La carità viene indicata come il dovere e il compito «(…) intrinseco della Chiesa intera e del Vescovo nella sua Diocesi» che richiama l’essenza stessa della sua missione originaria.

Potremmo dire quindi che senza carità la Chiesa sarebbe vuota, mentre senza la Chiesa la carità continuerebbe ad esistere e ad esprimersi perché riflesso dell’amore di Dio nell’uomo, qualunque uomo. La riflessione di Papa Ratzinger prosegue approfondendo il ruolo dei «collaboratori che svolgono sul piano pratico il lavoro della carità nella Chiesa». A tal proposito, per quanto già accennate nei precedenti articoli, riteniamo importante tornare su alcune questioni di fondo. L’Enciclica sottolinea immediatamente che l’amore di Cristo deve essere la spinta che muove l’agire e l’operare di queste persone “responsabili”, un amore che è entrato nel loro cuore e che in esso ha risvegliato l’amore per il prossimo. Andando oltre, si tratta di discernere il piano ideologico, spesso capace di promettere cambiamenti e rivoluzioni epocali, dalla fede che guida l’agire secondo carità. Questo discernimento è fondamentale perché in tal modo si permette, senza ambiguità, di far emergere il Cristo vivo ed efficace nelle opere della Chiesa.

Il Papa, a questo proposito, rintraccia il principio ispiratore dell’agire caritatevole al capitolo 5, versetto 14, della Seconda Lettera ai Corinzi: «L’amore del Cristo ci spinge». Una considerazione che sintetizza diversi vissuti: l’amore per Cristo e l’amore per la Chiesa, la collaborazione con il Vescovo e la diffusione dell’amore nel mondo, non vivere più per se stessi ma per gli altri, dove si rivela il volto di Dio. Un tale atteggiamento apre anche al rispetto e alla collaborazione con altre strutture che si pongono al servizio dell’uomo.

Attenzione e rispetto che però non deve mai dimenticare che «l’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona» (n. 34). Aiutare quindi nel segno della donazione che non umilia, possibilità praticabile solo se donare significa dare prima di tutto noi stessi, ciò che siamo prima di ciò che abbiamo.