Anniversari

75 anni fa la liberazione del campo nazista di Bergen-Belsen: una memoria da non archiviare

Un anniversario che rende omaggio alla memoria di 70 mila vittime in massima parte ebrei ma anche zingari, omosessuali, testimoni di Geova, detenuti politici e prigionieri di guerra, vittime di una dittatura brutale, fondata sull’odio di razza

Lo spettacolo che si presentò, il 15 aprile del 1945, ai soldati della 11ma Divisione corazzata dell’Esercito britannico sotto il comando del generale Bernard Montgomery fu sconvolgente. Nel campo di Bergen-Belsen, nella Bassa Sassonia, le truppe alleate trovarono circa 60 mila prigionieri, in massima parte ebrei, moltissimi moribondi o in gravi condizioni di salute ma anche migliaia e migliaia di corpi insepolti o accatastati all’interno o nei pressi di quel luogo di morte. Ci vollero settimane per sanificare l’intera area, durante le quali morirono oltre 13 mila detenuti, troppo debilitati per sopravvivere. Le strutture del campo furono bruciate per combattere l’epidemia di tifo e l’infestazione da pidocchi e il 21 maggio una cerimonia suggellò la distruzione delle ultime baracche.

Gli orrori e i terribili abusi consumati nel campo nazista

Il ritrovamento del campo di Bergen-Belsen, da parte delle truppe alleate, dopo quello Auschwitz scoperto, il 27 gennaio del 1945, dall’Armata Roma, ebbe vastissima eco nell’opinione pubblica mondiale, specie in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove la stampa diede grande risalto alle immagini e ai filmati che documentavano in modo inequivocabile gli orrori consumati all’interno dei campi di prigionia e di concentramento nazisti, su cui terribili abusi erano giunte denunce, non credute o archiviate per motivi di opportunità belliche.

70 mila vittime dell’odio razziale e dello sprezzo del nemico

Nel campo di concentramento Bergen-Belsen, si stima, morirono tra il 1943 e il 1945 circa 50 mila internati, cui oltre 35 mila di tifo nei primi cinque mesi del 1945: in massima parte ebrei di Boemia e Moravia e polacchi ma anche criminali comuni, prigionieri politici, zingari, testimoni di Geova e omosessuali. A questa drammatica conta vanno aggiunti le migliaia di prigionieri di guerra, morti dal 1940 al 1943, tra cui 20 mila soldati sovietici.

Le durissime condizioni di detenzione dei prigionieri di guerra

Il campo di Bergen-Belsen era stato infatti aperto nel 1940, con il nome di Stalag 311 o Stalag XI-C, come campo per prigionieri di guerra, francesi, belgi, italiani e soprattutto russi, in massima parte periti per le durissime condizioni di detenzione. Poi nel gennaio del 1945 fu smantellato per ampliare il contiguo campo di concentramento, aperto nell’aprile del 1943, posto sotto la direzione delle SS e suddiviso in due sezioni, residenziale e detentiva.

Il campo dove la vita non ha valore

Il campo residenziale era destinato ai prigionieri ebrei che dovevano essere scambiati con civili tedeschi all’estero: su 14.700 ebrei giunti in questa sezione tra 1943 e il 1944, solo 2560 furono liberati per scambio. Altri 7 mila sopravissuti, furono invece evacuati tra il 6 e l’11 aprile del 1945, verso il campo di Theresienstadt con tre convogli, di cui uno solo raggiunse la destinazione ed altri due – dopo disavventure e privazioni che fecero centinaia di vittime – furono intercettati e liberati dalle truppe alleate e sovietiche.

Un solo forno crematorio e tante fosse comuni

Il campo di detenzione era invece di riferimento anche per altri campi, tra cui quello di Auschwitz-Birkenau, da dove a causa del collasso del fronte di guerra orientale, giunsero sempre più prigionieri, fino al sovraffollamento incontenibile all’inizio del 1945: mancava cibo e acqua potabile e le persone morivano in grandissimo numero per malattie e malnutrizione. Il solo forno crematorio del campo non bastava più e i corpi venivano gettati in fosse comuni. I morti furono 7 mila nel mese di febbraio del 1945 e 18 mila nel mese di marzo. Da lì a due settimane sarebbe arrivata la salvezza, se solo gli alleati li avessero cercati e trovati prima che la tragedia si consumasse in pieno.

Tra le vittime Anne Frank simbolo all’odio antisemita

Tra le vittime, divenuta simbolo dell’odio antisemita, fu anche la giovanissima Anne Frank, cha dal campo di Auschwitz-Birkenau, era stata trasferita nell’autunno del 1944 in quello di Bergen-Belsen, dove contrasse il tifo e morì tra febbraio e marzo del 1945, appena quindicenne, a pochi giorni dalla sorella Margot.

Una memoria di dolore da non archiviare

Sono trascorsi 75 anni dal giorno che pose fine al nascondimento dei misfatti compiuti nel campo di Bergen-Belsen. Una storia documentata al mondo intero attraverso foto e filmati degli orrori consumati, da non dimenticare ai nostri giorni, sottolinea Matteo Corradini, giornalista, scrittore ebraista, docente universitario e instancabile animatore della memoria:

Che cosa non archiviare mai di quegli eventi tragici?

R. – Dopo il 27 gennaio 1945, data dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, l’attività dei lager nazisti non si arrestò. Molti lager costruiti nell’Europa Centrale continuarono a essere attivi per diversi mesi, e anzi videro crescere il numero dei propri internati: i nazisti muovevano masse infinite di persone verso ovest dai campi dell’est ormai non più controllato dalla Germania. Bergen-Belsen non era un luogo di sterminio, ma le condizioni violente e brutali dettate dalla gestione nazista portarono alla morte circa ventimila persone, alle quali si aggiungono circa quarantamila persone decedute per un’epidemia di tifo sviluppatasi nei primi mesi del 1945 e fino alla liberazione. Fu un luogo di sofferenza, e la documentazione fotografica degli inglesi mise di fronte al mondo una verità poco digeribile: la guerra che si era combattuta era stata diversa da tutte le altre. La popolazione ebraica era stata deportata e portata alla morte in modi diversi, con organizzazione e metodo. Le foto raccontano questo iniziale stupore, e la volontà di documentare tutto è collegata subito, a filo stretto, all’idea che la storia fosse di per sé incredibile.

Sul piano storico non si trattò però di una vera liberazione? 

R.- Dal punto di vista bellico, non c’era interesse a liberare i lager. Sia sulla parte occidentale del fronte che su quella orientale, gli eserciti coinvolti erano impegnati a combattere le armate naziste e non avevano intenti di liberazione. La strategia, e gli ordini superiori, non prevedevano la liberazione dei lager. Non era considerato conveniente o utile. Nella stragrande maggioranza dei casi, semplicemente gli eserciti avanzando si imbattevano nei luoghi di sterminio e concentramento, e prestavano soccorso agli internati.

In questo campo morì Anne Frank, la cui storia ha commosso il mondo attraverso la pubblicazione postuma del suo Diario, negli anni della clandestinità vissuta con la sua famiglia ad Amsterdam. C’è un pensiero particolare in questi giorni in cui sperimentiamo una limitazione delle nostre libertà di movimento a causa della pandemia?

R. – La nostra condizione è profondamente differente da quella di Anne Frank. Su internet ho trovato più di un paragone, che però sento molto lontano. Quello che accade a noi oggi non mi sembra paragonabile a quel che accadeva agli ebrei nascosti sotto la persecuzione nazista. Trovo che le parole di Anne Frank, quando non utilizzate per facili post sui social network e lette nel loro insieme, possano essere molto potenti. E possano essere anche di conforto, come ogni parola che ci aiuta ad avvicinarci alla nostra intimità. Il dolore è sempre diverso, e questo Anne Frank lo sapeva bene.

Da Vatican News