53. “Evangelium Vitae”. Il rischio che da una società di “conviventi” si passi ad una società di “esclusi”

Da una società di “conviventi” si rischia di passare ad una società di “esclusi”, antidemocratica, se non si pone mano al reale sviluppo di una forte coerenza tra principi proclamati e scelte attuate, soprattutto in merito alla difesa e promozione della vita umana.

Abbiamo chiuso il precedente articolo dedicato all’Evangelium Vitae di Papa Giovanni Paolo II, promettendo di approfondire le importanti indicazioni riportate al n. 18 dell’Enciclica: «(…) proprio in un’epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell’esistenza, quali sono il nascere e il morire».

Ciò a cui il Pontefice fa riferimento è il contradditorio atteggiamento con il quale oggi vengono affrontate le questioni relative alla vita e alla morte che investono l’uomo nelle diverse fasi della sua esistenza. Il supermento di un’ottica miope ed etnocentrica, l’affermazione dei diritti inviolabili, lo sviluppo di una sensibilità morale «più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale», sono dati acquisiti e ribaditi ad ogni livello della riflessione etica e filosofica mondiale. Intere campagne politiche vengono costruite su questi valori, delineando prospettive esistenziali personali e comunitarie di grande impegno sociale in ogni campo dell’agire umano.

Poi occorre fare i conti con la realtà dei fatti ed ecco che le promesse si dileguano come nebbia al calore del sole. Troppe volte i fatti negano le intenzioni, proclamate spesso anche con insistenza e seducente convinzione. È sconcertante e scandaloso, così si esprime Papa Giovanni Paolo II. In una società che grida ad ogni angolo di strada la difesa e la promozione della vita umana, si riscontrano i peggiori delitti e attentati contro di essa. Sconcertante e scandaloso è il «(…) rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell’anziano, dell’appena concepito».

Ciò, sottolinea il Papa, costituisce una vera e propria minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell’uomo capace di mettere a repentaglio «(…) lo stesso significato della convivenza democratica: da società di « con- viventi », le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi». La questione della difesa dei diritti delle persone e dei popoli troppo spesso si riduce a «sterile esercizio teorico» mascherando «(…) l’egoismo dei Paesi ricchi che chiudono l’accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi divieti di procreazione».

Davvero la procreazione, la disabilità, la malattia, si contrappone allo sviluppo dell’uomo? E se invece mettessimo in discussione modelli economici e sociali che spingono a questa scelta perché l’alternativa significa povertà, sofferenza, discriminazione, violenza? Dove sono le radici di una tale contraddizione? Oggi il concetto di soggettività sembra declinarsi solo se è assicurata la piena autonomia dell’individuo, per cui è pienamente titolare di diritti colui che «(…) esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri».

Come dire che colui che necessita di aiuto, in una società come la nostra, non è davvero riconosciuto come un vero e proprio portatore di diritti: il forte, l’autonomo e l’indipendente è il modello a cui invece occorre tendere, gli altri sono un passo indietro, gli altri sono dei falliti, perdenti, per i quali occorre domandarsi se davvero vale la pena che vivano. Il perdente è spesso una persona che consuma poco, non è un vero e proprio consumatore capace di arricchire le grandi aziende, di sviluppare e incrementare il PIL.

Su cosa allora puntare? Per cosa vale la pena davvero vivere? Ecco l’altro modello, quello che invece permette l’incremento economico vero e proprio: la rincorsa al successo, alla visibilità, al mancato rispetto delle regole democratiche che impongono un limite, ecco l’esaltazione di modelli di vita che fanno del rapporto con l’altro un’occasione in cui poter esprimere il proprio potere e quindi sfruttare l’altro a tutti i livelli, senza riguardo per nulla e nessuno, l’importante e arrivare alla fine della corsa e dire che si è vincitori, che i nemici sono stati battuti, che si è migliori, si è diventati proprietari di tutto …. l’importante è che gli altri stiamo sempre un passo indietro.

Ma in cosa consiste essere un passo indietro? Essere anziano? Povero, disabile, di altra fede o razza, disoccupato? Precario? Detenuto, mal istruito, sottoccupato? Magari vivere in mezzo ad una montagna di rifiuti non raccolti? Oppure perdente è colui che non accetta compromessi etici o politici? Non sfrutta le conoscenze, magari evitando la trafila di un appuntamento da prendere alle Ausl, oppure ricorrere a cambi di residenza di conoscenti e parenti per vedersi attribuire un appartamento nelle “case popolari”?

Se non si riconosce in questo modello c’è il rischio di non vedere riconosciuta la propria soggettività. L’affermazione è forte ma forse è meglio chiamare le cose con il proprio nome piuttosto che continuare ad alimentare la contraddizione di cui appena sopra. È più facile un aborto o sopportare il dolore di un’eventuale abbandono per adozione oppure la fatica di conciliare educazione con carriera professionale? La drammatica verità: tenere un comportamento corretto e rispettoso delle responsabilità personali e altrui significa perdere la propria soggettività, non essere un vincente, è perdente colui che fa posto a qualcun altro a cui occorre riconoscere migliori competenze delle proprie.

Costruire il bene comune significa infatti fare anche un passo indietro di fronte a chi è meglio di noi, ma gli scandali nella sanità ci dicono esattamente il contrario. Mille esempi per parlare di attentati alla vita. È questa la pericolosa logica che sta trasformando il concetto di soggettività che invece è intrinsecamente legato all’unica verità che la fonda, essere un uomo o una donna, non oggetti da sfruttare secondo la convenienza del momento. Se siamo fermi all’idea che la dignità umana è identificabile «(…) con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita (…) È chiaro che, con tali presupposti, non c’è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole».

Il criterio che si afferma, per riprendere e sintetizzare quanto sopra abbondantemente esemplificato, è quello della forza, un criterio di scelta che trova espressione nei rapporti personali e nella convivenza sociale. Lo Stato di diritto, in realtà, pone a suo fondamento l’aspetto opposto: alle «ragioni della forza» sostituisce la «forza della ragione».

Può la ragione vincere contro lo strapotere economico, quello mediatico, contro il successo ricercato ad ogni costo, contro una politica incapace di compiere passi per la costruzione del bene comune ma che sa solamente fare scelte per la difesa di personalissimi interessi e sacche di potere? Questa è la scommessa della fede cristiana, la speranza che ogni figlio di Dio non potrà mai abbandonare e che oggi, più che mai necessita di coraggio e scaltrezza, perché quando soccombe il debole, la democrazia è finita.