45. “Centesimus Annus”: L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone un diritto

“L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale.” Così Papa Giovanni Paolo II circa il rapporto tra misure economiche e valore del lavoro in senso cristiano nella “Centesimus Annus”.

La pace sociale non può essere raggiunta in una società in cui le misure di politica economica non consentono ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione. Questa la posizione di papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Centesimus Annus” del 1991. Un’affermazione ricchissima di conseguenze che un economista cattolico, magari impegnato in politica, ha l’obbligo morale di tener in gran conto. Il pensiero del Pontefice circa il rapporto tra misure economiche e senso e valore del lavoro in una prospettiva cristiana tesa al raggiungimento della pace sociale, è certamente molto più articolato di quanto possiamo esprimere in questa rubrica, ma certamente possiamo riflettere su un suo nucleo fondamentale: “La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa, invece, illegittima, quando non viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall’espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale proprietà non ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini” (42). Per quanto quindi insigni imprenditori e capitalisti di successo possano scomodare la Dottrina sociale della Chiesa per giustificare la legittimazione della proprietà privata, la stessa Dottrina sociale li richiama nel momento in cui si perde la natura stessa di tale legittimazione: l’uso si trasforma in un abuso quando il sistema dell’impresa diventa sistema di sfruttamento, quando compare quindi un monopolio di mercato, quando si creano “cartelli” che comprimono la ricchezza sociale, favorendo la speculazione e la creazione di “strutture di peccato”. Gravissima la condanna: un abuso al cospetto di Dio e degli uomini. L’ambiguità però regna sovrana, è quindi facile sentire sbandierare proclami legati al diritto naturale alla proprietà privata e poi sostenere economie liberticide, votate all’incremento senza regole dell’utile a danno dell’occupazione e del rispetto della dignità umana. Il senso della proprietà privata non va quindi ricercato nella formula individuata da Marx, D-M-D, per cui il sistema economico tende ad incrementare il denaro a partire dal denaro stesso, ma da un’altra e assai più alta visione: “Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti”. Il Papa va oltre. Se infatti il sistema capitalistico dovesse essere riconosciuto come il migliore, vista la drammatica dine di quello comunista, siamo davvero convinti che esso, così come lo conosciamo, sia proponibile ai paesi del Terzo mondo? La domanda è più che lecita perché nella risposta emergono palesemente tutte le contraddizioni e le ipocrisie del sistema di mercato che caratterizza le economie occidentali. Ritornare invece sugli assunti fondamentali che, tra l’altro, consentono di pensare alla proprietà privata come a un diritto naturale, consente alle economie più povere di sperare in moltissimi benefici. Il Papa, a questo proposito, mette sull’avviso: “(…) se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”. Se pensiamo allo sfruttamento senza regole che “i grandi paesi capitalisti”, quelli che vivono di democrazia e libertà, attuano in varie parti del mondo, già comprendiamo quanta ambiguità e ipocrisia emerge dal nostro sistema economico. Il futuro dei paesi più poveri è quindi già scritto, continuare ad essere poveri e sfruttati. Potrà cambiare il padrone di turno, ma non le loro condizioni di vita materiali e spirituali. In verità ci si dimentica spesso che “l’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto”. Il Papa si spinge ancora più in là quando afferma che nella ricerca di soluzioni per i problemi dei paesi poveri, si corre il rischio che si diffonda un’ideologia radicale che rifiuta persino di prenderli in considerazione “(…) ritenendo a priori condannato all’insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato”. La questione quindi si ripropone senza cambiamenti evidenti. La Chiesa, ribadisce Papa Giovanni Paolo II, non ha modelli da proporre ma riconosce la positività del mercato e dell’impresa indicando allo stesso tempo “la necessità che questi siano orientati verso il bene comune”. Non mancano quindi i criteri e i punti di riferimento; ai potenti del mondo, del nostro paese, spesso cattolici, il compito di tradurli in programmi di governo per il bene di tutti e per la Pace sociale.