35. La “Centesimus annus”: l’errore antropologico del socialismo secondo Papa Giovanni Paolo II

«Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una molecola dell’organismo sociale, di modo che il bene dell’individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale […]».

Il papa continua la sua riflessione secondo una prospettiva che coniuga la contestualizzazione storica e la necessaria attualizzazione delle provocatorie indicazioni contenute del documento. Se da una parte papa Leone XIII aveva previsto le negative conseguenze dell’ordinamento sociale proposto dal “socialismo”, prova ne sono i fatti del 1989, dall’altra riconosceva il valore dell’obiettivo da raggiungere, ovvero la difesa dei poveri nei confronti dello strapotere dei ricchi. Si tratta evidentemente di comprendere che il fine individuato non sarebbe mai potuto essere raggiunto secondo le modalità sostenute dal socialismo, per cui il rimedio diventa peggio del male: «Per rimediare a questo male (l’ingiusta distribuzione delle ricchezze e la miseria dei proletari), i socialisti spingono i poveri all’odio contro i ricchi, e sostengono che la proprietà privata deve essere abolita ed i beni di ciascuno debbono essere comuni a tutti …; ma questa teoria, oltre a non risolvere la questione, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché contro i diritti dei legittimi proprietari snatura le funzioni dello Stato e scompagina tutto l’ordine sociale». (R. N. n. 39). È questo il punto di partenza della riflessione che sviluppa Papa Giovanni Paolo II. Tralasciando, per ovvi motivi di spazio, alcuni altri importanti riferimenti relativi alla discussione sulla proprietà privata di cui ai precedenti articoli, ci sembra fondamentale soffermarci su ciò che costituisce il nodo essenziale di qualsiasi argomentazione circa l’espressione del genio umano: il modello antropologico a cui rifarsi. Il papa in merito è chiarissimo: «[…] l’errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico» (n. 13). L’uomo è ridotto a molecola dell’«organismo sociale» e il bene individuale viene subordinato al funzionamento del meccanismo economico – sociale. Le sue legittime autonome scelte e relative assunzioni di responsabilità sono svuotate di senso, mentre acquistano di valore le sole relazioni sociali. Il concetto di persona nella sua complessità scompare e in modo particolare la sfera del vissuto morale che viene sacrificato sull’altare della vittoria dei poveri sui ricchi. «L’uomo, infatti, privo di qualcosa che possa “dir suo” e della possibilità di guadagnarsi da vivere con la sua iniziativa, viene a dipendere dalla macchina sociale e da coloro che la controllano: il che gli rende molto più difficile riconoscere la sua dignità di persona ed inceppa il cammino per la costituzione di un’autentica comunità umana». Una tale comunità umana non tiene conto di aspettative e aspirazioni proprie dell’animo umano e prima fra tutte quelle legate alla sviluppo della propria socialità. Lo Stato non può e non deve esaurire la dimensione sociale dell’uomo. I gruppi intermedi come la famiglia, quelli economici, sociali, politici e culturali, devono vedere riconosciuta la propria autonomia sempre in vista del bene comune. La soggettività dell’individuo e quella della società, secondo il grande papa, sono state annullate dal “socialismo reale”. Esso, fondandosi sull’opzione atea dell’esistenza, perde di vista un fatto antropologico “non negoziabile”, il riferimento alla consapevolezza che ogni uomo acquisisce rispondendo all’appello di Dio: la sua trascendente dignità. Saltare questo passaggio significa sviluppare un modello antropologico che conduce inevitabilmente agli errori politici di cui l’umanità paga ancora il prezzo. Nessun meccanismo sociale, economico o “soggetto collettivo” potrà mai riuscire a sostituire la risposta dell’uomo alla chiamata di Dio. «La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona». Vivere senza Dio, rifiutarne la stessa idea o addirittura denigrare anche solo concettualmente una simile possibilità, conduce inevitabilmente a negare la grandezza stessa dell’uomo e delle sue espressioni culturali e sociali.