23. Laborem Exercens: Il lavoro nell’insegnamento della Chiesa / 3

«Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere»

 Vivere il lavoro come un’occasione tramite la quale avvicinarsi a Dio. Questo il messaggio finale che papa Giovanni Paolo II, nell’ultima parte dell’Enciclica “Laborem Exercens”, dona ai cattolici del mondo. Un messaggio in piena continuità con le modalità dell’essere cristiani in forza del battesimo: sacerdoti, re e profeti. Questi aspetti non sono condizioni esistenziali relegate ad un ambito avulso dalla realtà in una sorta di piano dell’esistenza distaccato e inconsistenze. È invece una verità che si disvela proprio in virtù del senso profondo che il credente è chiamato a scoprire e comprendere nella dimensione lavorativa che lo riguarda. Continuità e non separatezza, tra vita e fede, tra ordinarietà dell’esistenza e spiritualità personale: nel rapporto che ciascuno ha con il proprio lavoro passa uno dei modi più alti e completi di incarnare il messaggio cristiano. La Chiesa, come ricorda l’amato pontefice, considera suo dovere particolare, coltivare la spiritualità del lavoro, perché è un’attività alla quale l’uomo, tutto l’uomo, partecipa in modo personale e specifico. Il lavoro è quindi prima di tutto espressione dell’associazione dell’uomo al’opera creatrice di Dio, nonché unione alla figura di Cristo che ha fatto esperienza del lavoro e proprio per questo ha dato dignità al lavoro stesso. Basta ricordare la domanda che i contemporanei di Gesù si facevano “Non è costui il carpentiere?”. Gesù viveva e proclamava il “vangelo del lavoro”, una consapevolezza che occorrerebbe meglio approfondire, perché può aiutare tutti a investire in un modo più appropriato su un’idea di fede concreta e reale e non disincarnata e “metafisica”. Gesù ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto, quasi individuasse nelle tante forme di lavoro, altrettante modalità di somiglianza dell’uomo con Dio. Del resto, per non parlare di nuovo della Genesi, Gesù parla del Padre come il vignaiolo, un lavoratore, un’immagine in cui è richiamata sia l’esperienza della fatica che quella del riposo. Nella fatica, nella sofferenza, nel dolore, ogni uomo, ogni lavoratore, vive il mistero della sofferenza e della croce di Gesù, a motivo della “durezza” che il lavoro necessariamente comporta: “Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce (…) L’uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo.” Il riposo però non può essere inteso in senso riduttivo, come mera sospensione della fatica umana, c’è di più: “esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l’uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel «riposo» che il Signore riserva ai suoi servi ed amici (36)”. È un riposo che rimanda all’abbandono a Dio, alla rigenerazione spirituale abbeverando la propria anima alla mensa della Parola e dell’Eucarestia. Certamente l’insegnamento di Gesù sul lavoro potrebbe essere meglio compreso alla luce di una ricognizione storica delle tantissime figure riportate in merito nell’Antico e Nuovo Testamento. Per ragioni di sintesi le parole dell’Apostolo delle genti, S. Paolo, ci sembrano quelle che meglio qualificano l’insegnamento che stiamo trattando: (…) «Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale ricompensa, riceverete dal Signore l’eredità». La testimonianza cristiana invade l’intera esistenza, compreso il campo dell’attività lavorativa umana …. «Chi non vuol lavorare, neppure mangi».