Cinema

20 anni senza Vittorio Gassman, l’eterno Mattatore italiano

Vent’anni fa ci lasciava il gigante del cinema e del teatro. Con oltre centoventi film e altrettanti spettacoli di prosa ha segnato la cultura popolare e colta del secondo ’900

È difficile svelare le molte facce di Vittorio Gassman, questo nostro grandissimo e geniale attore dalla produzione immensa (più di 120 film e altrettanti spettacoli teatrali), ma anche dell’uomo di cultura sempre al passo con il suo tempo, impegnato anche nel presente, nonostante la sua preparazione di base fosse fondata sui testi classici. Gassman rimase fedele alla tradizione del “grande attore” (del “mattatore”, come si diceva quando si parlava dei grandi dell’Ottocento), ma ne modernizzò lo schema e lo ripropose con prepotenza fino a diventare, giovanissimo, il vero dominatore della scena italiana, fin da quel memorabile Amleto del 1953. Tentò fin dall’inizio la strada del cinema, avvalendosi di quella sua bella faccia classica che sapeva diventare sfrontata, anche a Hollywood, ma senza successo, finché nel 1958 non arrivò come un fulmine nel cinema italiano il personaggio di Peppe er Pantera, de I soliti ignoti, che segnò una svolta non soltanto nella carriera cinematografica di Gassman, ma anche l’inizio di quella che sarà definita “commedia all’italiana” che meravigliò il mondo. Una data di comodo questa, che però non corrisponde alla realtà storica, perché Alberto Sordi aveva iniziato questo filone, a cui non era stata data una etichetta, molti anni prima, condizionati come si era dai limiti del cinema comico, che aveva bisogno di storie approssimative che davano spunti al protagonista, e di durate di corto respiro. Anche Totò, il re del cinema comico, era passato, diversi anni prima, alla “commedia all’italiana” con l’indimenticabile Guardie e ladri, dove si racconta una storia completa in termini ora comici e ora drammatici.

Comunque ne I soliti ignoti di Mario Monicelli e scritto da Age e Scarpelli, c’è Gassman come figura preminente in un film che potremmo definire “corale”, grazie alla presenza di altre figure dominanti come Marcello Mastroianni, ma anche come Renato Salvatori, Claudia Cardinale, e soprattutto di caratteristi come Carlo Pisacane, l’ex fantino Capannelle perennemente affamato, e Tiberio Murgia, il sardo che Monicelli fa diventare il siciliano Ferribotte, gelosissimo della sorella. Personaggi immortali che sono arrivati fino a noi e sono entrati nel nostro immaginario collettivo. Arriveranno successivamente altri personaggi in un certo senso dirompenti, come il Bruno de Il sorpasso, o lo sfigato condottiero medioevale Brancaleone da Norcia, o il commilitone di Sordi ne La grande guerra. Tutti personaggi che conviveranno con il percorso teatrale che Vittorio Gassman farà fino alla fine con grande coerenza e grande successo. Nella carriera di Gassman tutto è grandioso, nella scelta di grandi personaggi come quelli cui ho fatto cenno, ma soprattutto nel teatro. Dopo il grande successo di Amleto, affronta uno dietro l’altro, con impeto ed estrema lucidità, gli autori greci al pari di Shakespeare, Manzoni e Pirandello, ma anche i contemporanei Pinter, Anouilh, Honegger, lo Zardi degli irridenti Tromboni, o il Flaiano del beffardo Un marziano a Roma. Ma nella memoria di quegli anni rimane anche la versione dell’Otello nella quale Gassman si alternava, alla maniera dei mattatori del passato, con un suo grande collega, Salvo Randone, nei panni ora di Otello, ora di Jago.

L’impresa più clamorosa e più impegnativa è tuttavia quella del Teatro Popolare Italiano, con il quale Gassman, nel 1960, si ripromette di realizzare quella “educazione teatrale degli italiani” che sognava ai tempi dell’Accademia. Per questo sceglie un tendone smontabile. L’idea gli è venuta vedendo l’impresario Giuseppe Erba portare in giro per l’Italia una balena imbalsamata, da mostrare al pubblico appunto sotto un tendone. Con Erba, Gassman concepisce una struttura per tremila spettatori e un palcoscenico più vasto di quello della Scala. Dovrebbe essere una struttura agile, ma alla prova dei fatti richiede quasi un mese per il montaggio e altrettanto per essere smontata. La compagnia è costituita da 60 persone. Il testo è l’Adelchi di Alessandro Manzoni, in una messa in scena di grande effetto. Praticamente un fallimento e un disastro finanziario. La tenda di un circo, con il suo pubblico popolare, sembra congeniale a Gassman che ha iniziato, con la trasmissione Il mattatore, una lunga e proficua collaborazione con la Tv. Con questa trasmissione Gassman conquista un pubblico sempre più largo, mischiando i generi e alternando la cultura alta con quella popolare. Ma poi, nei decenni successi con Gassman all’asta, dopo una lunga pausa cinematografica, ritorna al teatro con uno spettacolo durato tantissime ore e tanti giorni, dove improvvisava con il suo repertorio. Fino al gran finale con Ulisse e la balena bianca dove, in un certo senso, passa il testimone a suo figlio Alessandro, che recita con lui fin da ragazzo.

Gassman, infatti, guardava al teatro come alla naturale sede nella quale concentrare o disseminare a piene mani il proprio talento, ma si prestava al cinema e alla televisione con una generosità e un istrionismo unici, rinnovandosi e mettendosi in discussione in ogni momento della sua vita e nello stesso tempo proiettandosi verso un futuro sempre nuovo. La sua fu una sfida al tempo che passa inesorabile e, non potendo fermare il tempo, Gassman rinnovava se stesso, quasi a costruirsi una eterna giovinezza. Ma forse il tanto lavoro era come un antidoto alle angosce e alla depressione che periodicamente lo attanagliava. Per questo tornò continuamente alle letture dantesche. Ma non esitò a “sporcarsi le mani” con la televisione, nella quale dette fondo a tutto il proprio repertorio di “gigionate” che denotavano tuttavia grande studio e severa applicazione delle proprie possibilità espressive. Insomma, un attore a tutto tondo, grande, anzi grandioso, che non si rinchiuse in torri d’avorio, ma sfidò ogni volta il proprio tempo e il pubblico, sorprendendolo, magari irritandolo. Un grande artista – e non è un luogo comune – che migliorava invecchiando. O invecchiava migliorando.

da avvenire.it