Giornata dell’autismo. L’appello di una mamma: «La Chiesa si dovrebbe prendere cura dei nostri figli quando non ci saremo più»

La domenica di Pasqua, è stata celebrata anche a Rieti la Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’autismo. Le iniziative hanno previsto una prima parte svolta all’Auditorium Varrone, durante la quale è stato proiettato il film “Life Animated”. Sul far della sera, la manifestazione è stata spostata lungo il fiume Velino, dove sono state lanciate in aria 70 lanterne luminose blu, accompagnate dalla musica a tema trasmessa da Radiomondo. L'iniziativa ha visto la partecipazione del Comando dei Vigili del Fuoco di Rieti, dell’Associazione Vigili del Fuoco, della Casa Editrice Puntidivista, dell’Associazione Santa Barbara nel Mondo, del Comune di Rieti e della Prefettura di Rieti.

Sul tema della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’autismo, pubblichiamo una testimonianza da fuori Rieti, per allargare il panorama e approfondire. A parlare è Carmela, mamma di Eliana, nata con un disturbo che rientra nello spettro autistico. «Abbiamo una chiesa vicino a casa, ma Eliana non vuole entrarci. La domenica c’è anche un gruppo di scout, ho chiesto se potevamo unirci a loro ma ci hanno fatto capire che non era ben accetta». La denuncia: «Quando si diventa maggiorenni, per lo Stato i ragazzi autistici non hanno più bisogno di nulla»

«La Chiesa dovrebbe aiutare i nostri ragazzi, supplendo alle carenze dello Stato». Carmela è la mamma di Eliana, nata con un disturbo che rientra nello spettro autistico. I medici la chiamano sindrome di Rett, e fino ai 2 anni di età i genitori non avevano sospettato nulla: «Poi si sono manifestati grossi problemi, ma per avere la diagnosi abbiamo dovuto aspettare dieci anni. Abbiamo brancolato nel buio per tanto tempo. È una malattia attualmente non curabile, che ha diverse manifestazioni. Ma avere un’etichetta, in fondo, non serve a nulla: meglio concentrarsi sui sintomi da curare».

Cosa si aspettano dalla Chiesa i genitori di figli con autismo?

Che possa fare tanto in questo ambito. Lo Stato ha privatizzato anche il “Dopo di noi”. Mi auguro che la Chiesa possa assolvere questa funzione: non soltanto da un punto di vista finanziario, ma anche relazionale. Posso avere tantissimi soldi, ma pensare di lasciare Eliana in una casa con una badante è triste. Sarebbe sola. La comunità cristiana, invece, potrebbe accoglierla. La Chiesa può creare strutture adatte.

Intanto, come è stata accolta in parrocchia?

Abbiamo una chiesa vicino a casa, ma Eliana non vuole entrarci. La domenica c’è anche un gruppo di scout, ho chiesto se potevamo unirci a loro ma ci hanno fatto capire che non era ben accetta. Poi ho trovato una chiesa meravigliosa, dove ha fatto la Comunione e la Cresima. È la parrocchia Santi Martiri dell’Uganda a Roma. C’è un’accoglienza enorme. Quando entra nessuno si gira a guardarla, e lei non si mette mai ad urlare. Non ho trovato questa attenzione altrove, abbiamo fatto tantissime esperienze insieme e anche un campo estivo. C’è persino un pensiero a quello che sarà dopo.

Come è andata con i Sacramenti?

Sono stata felice dell’esperienza della Comunione e della Cresima. Alla Domenica delle Palme dello scorso anno, la funzione era molto lunga. A un tratto lei mi ha indicato la croce sulla tabella che utilizziamo per comunicare, per dirmi a che punto ci trovavamo. Spiegare il catechismo a Eliana non è facile. Ma io so che lei capisce.

Cosa è successo quando avete saputo della malattia di Eliana?

È stato molto difficile, perché non si sapeva neppure cosa fare. La prima fase è stata caratterizzata da grandi sofferenze fisiche. Eliana aveva problemi allo stomaco, otiti ricorrenti, non dormiva la notte, non mangiava e aveva allergie alimentari. La preoccupazione era di farla stare bene fisicamente. In quel momento abbiamo dovuto imparare a comprendere quello che lei voleva: ha detto “mamma” e poi più nulla. Ora, in più, dice soltanto “papà” e un gorgheggio per chiamare la sorella.

A proposito: com’è il rapporto tra sorelle?

Meraviglioso. Anna Maria ha visto la sorella da subito, ed Eliana l’ha presa in braccio appena rientrati a casa. Per Anna Maria non potrebbe che essere così la sorella, hanno un grande feeling e una capacità comunicativa sorprendente. Capisce molte cose di Eliana che io non riesco a comprendere.

Esistono giornate “normali” in famiglia?

Quando raramente capitano, siamo felici. La mattina laviamo e prepariamo Eliana, poi la vestiamo e la portiamo al pulmino che la viene a prendere per andare a scuola. Frequenta un istituto superiore, ma fa 5 ore al giorno anziché 6 perché si stanca. Dopo il pranzo, attività sportive come basket e nuoto. La psicomotricità con la terapista a casa due volte a settimana, così come lo yoga mirato per lei. Un pomeriggio andiamo in parrocchia, per un gruppo post-cresima. È importante rendere attiva la sua giornata, soprattutto per farla stare insieme alle altre persone e relazionarsi.

Chi si fa carico dei costi di assistenza?

Una parte dell’attività riabilitativa è a carico della Asl fino ai 18 anni: quando si diventa maggiorenni, per lo Stato i ragazzi autistici non hanno più bisogno di nulla. Eliana era seguita da un centro accreditato, e fortunatamente il progetto ancora dura. L’assistenza era già male organizzata quando era piccola, dopo la maggiore età è sparita del tutto. Nella Asl non c’è nemmeno la figura del neurologo che possa dare supporto alle persone come Eliana.

Quindi grava tutto sulla famiglia?

È tutto privato, con risorse economiche ingenti. Ma il problema è anche la scelta. A nessuno interessa dei nostri ragazzi. Noi siamo seguiti all’Istituto Bollea, dove c’è ancora l’idea del servizio pubblico. Ma la struttura sta chiudendo.

E a scuola?

È sempre stata una lotta, è facile accogliere chi parla e sa comprendere anche se ha una disabilità. Più difficile è avere un ragazzo che non può comunicare. Lei ha difficoltà a camminare, anche se fortunatamente riesce ad utilizzare le mani. Riesce a mangiare, ma non può scrivere. Il problema più grande, però, è farsi comprendere: i nostri ragazzi vogliono fortemente stare con gli altri, ma devono avere gli strumenti per comunicare.