13. Octogesima Adveniens: Costruire la città, luogo di esistenza degli uomini e delle loro dilatate comunità

Papa Paolo VI, agli inizi degli anni ’70, propose al mondo e ai fedeli cristiani un’attenta rilettura di alcuni fenomeni sociali già affrontati dal magistero precedente alla luce però di alcune evidenze storiche, sociologiche ed economiche che con rapidità venivano ad affermarsi. Come già chiarito nel precedente contributo, si tratta di una sorta di aggiornamento che il colto Pontefice volle fare, per continuare ad affermare quell’importante ruolo profetico che la Chiesa da sempre ricopre al fine di guardare con saggezza e speranza ad un futuro costruito nel segno del bene comune. «Costruire oggi la città» è l’imperativo con il quale si potrebbero coagulare tutte le indicazioni che il Pontefice riporta; non è, ovviamente, un semplice slogan, ma un impegno difficile, una continua sfida che vede proliferare questioni sempre nuove a cui la società civile e la comunità politica devono responsabilmente dare una risposta. Quale è la città di cui ci parla Paolo VI? Quali sono le sue preoccupazioni? A partire da una riflessione, già affrontata in queste pagine, relativa al fenomeno dell’urbanesimo, il papa sottolinea quanto esso «sconvolge i modi di vita e le strutture abituali dell’esistenza». Famiglia, vicinato, la stessa comunità cristiana sono alterate profondamente se riferite alle stesse costruzioni sociali del secolo precedente, l’uomo «sperimenta una nuova solitudine, non di fronte a una natura ostile, per dominare la quale ci sono voluti dei secoli, ma nella folla anonima che lo circonda e in mezzo alla quale egli si sente come straniero». Chi è lo straniero nelle nostre città? Riduttivo e miope pensare esclusivamente agli emigrati. E allora come dominare il cambiamento garantendo il bene di tutti? La città è il luogo in cui i cristiani sono chiamati ad operare contrapponendo l’esempio dell’amore, all’indifferenza e alle discriminazioni, svelando e aiutando a migliorare situazioni di sfruttamento e violenza che si celano dietro facciate insospettabili. Illuminante quanto segue: «È urgente ricostruire, a misura della strada, del quartiere, o del grande agglomerato, il tessuto sociale in cui l’uomo possa soddisfare le esigenze della sua personalità. Centri di interesse e di cultura devono essere creati o sviluppati a livello di comunità e di parrocchie, in quelle diverse forme di associazione, circoli ricreativi, luoghi di riunione, incontri spirituali comunitari, in cui ciascuno, sottraendosi all’isolamento, ricreerà dei rapporti fraterni (…) creare nuovi modi di contatto e di relazione, intravedere un’applicazione originale della giustizia sociale, prendere la responsabilità di questo avvenire collettivo che si annuncia difficile, è un compito al quale i cristiani devono partecipare». Preciso richiamo. Il Pontefice invita a guardare la città e chiedersi come costruire luoghi di relazione in cui vivere nel rispetto della dignità umana, come realizzare quartieri a misura d’uomo, luoghi di lavoro dove non si esperisce discriminazione, contesti sociali in cui giovani, donne ed emigrati possano davvero vedere rispettate le legittime aspirazioni in termini di ruoli professionali e realizzazioni personali. «È dovere di tutti, e specialmente dei cristiani” (cf. Mt 25,35), lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura: «Non possiamo invocare Dio, Padre di tutti gli uomini, se rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio». Attualizzando quanto riportato a proposito di lavoratori, potremmo certamente sottolineare quanto sia urgente pretendere, anche come cristiani, sia dalla società civile che e dalle scelte politiche, la soluzione della drammatica situazione precaria di un grande numero di lavoratori, emigrati e non, la cui condizione rende ancor più difficile, da parte dei medesimi, ogni rivendicazione sociale, nonostante la loro reale partecipazione allo sforzo economico del paese. «Chi non ama, non conosce Dio» (1Gv 4,8), ci ricorda Paolo VI: domanda importante per amministratori pubblici e uomini politici, soprattutto per coloro che non mancano mai di affermare la loro ispirazione cattolica, perché il loro amore, certamente genuino, proprio per il ruolo che ricoprono, a servizio del bene comune, non può esaurirsi nella cerchia dei propri affetti o, al limite, della propria compagine politica. Oggi sembra una bestemmia riconoscere al proprio avversario politico un merito quando realmente è stato fatto qualcosa per il bene comune, arriviamo alla barzelletta e alla fantascienza se dovessimo pensare ad una collaborazione tra parti politiche per il bene di tutti… viceversa si fa di tutto per trovare cosa è possibile criticare per denigrare le scelte politiche dell’avversario… sarebbe più realistico dire “nemico politico”, alla faccia dell’amore evangelico. Davanti a Dio, certi “reati” non vanno in prescrizione, tutt’altro, ricordano sempre al Signore la voce del povero e dell’indifeso e non può essere una semplice battuta per chi si professa cristiano.